Lo Zimbabwe moderno ha le sue origini in quella che era la parte meridionale della Rhodesia Britannica (corrispondente agli attuali stati di Zambia e Zimbabwe) il cui nome deriva da quello di Sir Cecil Rhodes, esploratore e uomo d’affari inglese di fine ‘800 che iniziò la colonizzazione dell’area.
Nel 1953 le due Rhodesie furono incorporate col Nyassaland, l’attuale Malawi, nella Federazione della Rhodesia e del Nyassaland. La spinta sempre più forte dei movimenti africani nazionalisti, sia bianchi che neri, contribuì alla caduta della Federazione, sciolta nel 1963, con la conseguente dichiarazione di indipendenza di Malawi e Zambia.
Il Primo Ministro della Rhodesia Meridionale, Ian Douglas Smith, segretario del principale partito bianco, il Fronte Rhodesiano, proclamò a sua volta (11 novembre 1965) l’indipendenza della colonia dalla Gran Bretagna. La dichiarazione (UDI, “Unilateral Declaration of Independence”) non fu però riconosciuta a livello internazionale. Il paese assunse il nome ufficiale di Repubblica di Rhodesia. Il 12 novembre il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si riunì emanando la Risoluzione 216, con la quale si invitavano tutti i membri dell’ONU a non riconoscere la Repubblica di Rhodesia, contro la quale furono applicate, per la prima volta nella storia dell’ONU, sanzioni economiche.
Socialmente ed economicamente la struttura del nuovo Stato si basava su un controllo generale dei bianchi sulla vita dello Stato, una predominanza garantita da un regime molto simile a quello dell’apartheid sudafricano. I princìpi alla base di questa organizzazione erano costituiti dal fatto che, secondo il partito di Smith, i bianchi di stirpe anglosassone avevano il diritto di gestire lo Stato che essi soli avevano fondato con fatica, indipendentemente dal fatto che fossero maggioranza o minoranza. In base al pensiero politico di Smith i neri avrebbero dovuto integrarsi gradualmente nella struttura socio-economica della Rhodesia, in modo da non stravolgerne i capisaldi. Tra i neri, Smith individuò negli ndebele il gruppo più propenso al dialogo, mentre gli shona rimasero tradizionalmente suoi ferrei nemici.
Tale impostazione fu osteggiata non solo dalla comunità internazionale (eccezion fatta per il Sudafrica e il regime dittatoriale del Portogallo, che riconobbero la Rhodesia), ma anche dai principali partiti neri del paese. Fu così che alla fine degli anni sessanta cominciò una vera e propria guerra civile tra bianchi e neri. I rivoltosi furono guidati inizialmente dallo ZAPU, partito marxista-leninista appoggiato dall’URSS, da Cuba e dai paesi del Patto di Varsavia, da cui si distaccò lo ZANU, di tendenza maoista, appoggiato dalla Cina. Successivamente i due partiti assunsero un carattere più etnico che ideologico, con lo ZANU, più estremista, guidato da Robert Mugabe appoggiato dagli shona, e lo ZAPU, più disposto al dialogo, guidato da Joshua Nkomo appoggiato dagli ndebele. La guerra civile si protrasse per tutti gli anni ’70. Col venire meno dei suoi pochi appoggi internazionali e il rafforzarsi della guerriglia, Smith fu costretto a venire a patti con i movimenti ribelli.
Nel 1979, si arrivò ad un accordo grazie anche all’opera della Gran Bretagna, e alla mediazione del vescovo anglicano Abel Muzorewa. Nelle elezioni che si tennero nelle stesso anno, furono assegnati 72 seggi alla maggioranza nera e 28 alla minoranza bianca. Vincitore delle elezioni fu il Consiglio Nazionale Africano Unito presieduto da Muzorewa che si aggiudicò 51 seggi su 100.
Le elezioni non furono però riconosciute dall’ONU e dalla comunità internazionale.
Nel 1980 lo Zimbabwe assunse il nome odierno e la sua indipendenza fu riconosciuta a livello internazionale. Le prime elezioni del paese, stavolta a suffragio universale, videro la vittoria dello ZANU, con 57 seggi su 100 e la nomina di Robert Mugabe come Primo Ministro. Primo Presidente del paese fu Canaan Banana, facente parte dello stesso partito. Alla minoranza bianca di Ian Smith furono assegnati 20 seggi.
Mugabe organizzò un governo di ispirazione vagamente marxista-leninista, non rinunciando però a parziali concessioni al liberismo economico. Tra ZANU e ZAPU nel 1983 scoppiò un terribile conflitto armato, che fece migliaia di vittime.
Nel 1985 si tennero nuove elezioni, sempre con 20 seggi su 100 assegnati alla minoranza bianca. Lo ZANU di Mugabe uscì rafforzato dalle elezioni ottenendo 64 seggi.
Durante la legislatura successiva, Mugabe riuscì a modificare la costituzione e ad eliminare la quota di seggi riservati ai bianchi.
Nel 1988 lo ZAPU, indebolito dallo scontro armato, cedette e si unì allo ZANU, formando lo ZANU-PF. Joshua Nkomo e Ian Smith furono gradualmente allontani dalla vita politica del paese. Quest’ultimo si rifugiò in Sudafrica dove ancora dominava la minoranza bianca. Nel 1987, scaduto il termine settennale di Canaan Banana, Robert Mugabe si autoproclamò presidente con poteri esecutivi, eliminando la carica di Primo Ministro.
Riconfermato nel 1990 e nel 1996 con oltre l’80% dei voti, Mugabe accentrò su di sé e sul proprio partito i poteri dello Stato, assumendo atteggiamenti sempre più demagogici e repressivi verso qualunque forma di opposizione.
Il deterioramento della situazione economica indebolì tuttavia il consenso del regime. La riforma costituzionale voluta da Mugabe fu bocciata dagli elettori nel referendum del 2000 e nelle elezioni dello stesso anno l’opposizione unita nel Movimento per il Cambio Democratico (MDC) di Morgan Tsvangirai, riuscì quasi a prendere tanti voti quanti lo ZANU-PF, nonostante innumerevoli episodi di violenza, intimidazione e truffa elettorale.
Mugabe allora iniziò un’opera di espropriazione delle proprietà agricole in mano alla minoranza bianca, per ridistribuirle ai cosiddetti “veterani” della guerra di liberazione (in realtà quasi tutti giovani membri del partito). Il risultato fu una forte emigrazione dei bianchi all’estero e un crollo della produzione agricola, a causa dell’incapacità dei nuovi proprietari di gestire le aziende agricole.
Questo aggravò la situazione economica, con il crollo del valore della moneta e nuovi tumulti sociali. Nelle elezioni presidenziali del 2002 fu rieletto con il 56,2% dei voti.
Le elezioni parlamentari del 2005 videro un incremento del numero di seggi per lo ZANU-PF.
Nelle elezioni presidenziali del 2008, Tsvangirai arrivò in testa al primo turno ma fu costretto a ritirarsi a causa del clima di violenza scatenato dallo ZANU-PF nel paese. Mugabe fu quindi rieletto nuovamente Presidente, tuttavia, poiché lo ZANU-PF aveva perso la maggioranza dei seggi in nelle elezioni parlamentari tenute lo stesso anno, si creò un governo di unità nazionale per fronteggiare la crisi economica, con Morgan Tsvangirai come primo ministro.
A causa di dissidi interni all’MDC, alimentati dallo ZANU-PF, ad una impossibilità di Tsvangirai di governare effettivamente il paese e ad una continua intimidazione degli esponenti dell’opposizione, nelle elezioni del 2013 Mugabe fu rieletto presidente al primo turno e lo ZANU-PF riconquistò la maggioranza assoluta al parlamento, ponendo termine quindi all’accordo di governo con l’MDC.
La crisi economica del paese tuttavia proseguì inarrestabile. Nel 2015 lo Zimbabwe ritirò dalla circolazione la propria moneta nazionale, il dollaro zimbabwano, sostituendola con il dollaro USA e il rand sudafricano. Il cambio fu fissato alla cifra astronomica di 35 milioni di miliardi di dollari zimbabwiani per un dollaro americano.
Essendo Mugabe ormai novantenne, negli ultimi anni si sono create rivalità all’interno dello stesso ZANU-PF per la sua successione. Da una parte la vecchia guardia del partito, guidata dal vicepresidente Emmerson Mnangagwa, dall’altra il gruppo di potere che ruotava intorno alla giovane e ambiziosa first lady Grace Mugabe.
Nel novembre 2017, Mugabe, su pressione della moglie, licenziò Mnangagwa e lo fece decadere dal ruolo di vicepresidente, l’esercito quindi, legato a quest’ultimo, attuò un colpo di stato militare incruento, mettendo Mugabe agli arresti domiciliari. Mugabe venne quindi costretto alle dimissioni e lo ZANU-PF nominò lo stesso Mnangagwa presidente al suo posto, fino alla scadenza naturale del mandato presidenziale.
Le successive elezioni presidenziali del luglio 2018 furono relativamente libere ma per niente eque, anche a causa dell’uso delle risorse statali utilizzate per la campagna elettorale di Mnagagwa. Quest’ultimo vinse al primo turno con il 508% dei voti contro il candidato dell’opposizione Nelson Chamisa che ottenne il 45,1%.
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