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IL MAPPAMONDO – A Quito finisce il socialismo ecuadoregno; a Samoa c’è voglia di cambiamento; Benin nuova vittima della crisi in West Africa?

ECUADOR

In Ecuador si è svolto il secondo turno delle elezioni presidenziali, che ha visto confrontarsi il liberalconservatore Guillermo Lasso e Andrés Arauz, l’erede socialista di Rafael Correa. Dopo una battaglia all’ultimo voto, è risultato vincitore Guillermo Lasso con il 52,4% dei suffragi.

 

La vittoria di Lasso è un duro colpo per la sinistra sudamericana. Visto anche che parliamo dell’Ecuador, uno dei Paesi più oltranzisti, reduce del decennale regno di Rafael Correa, il leader socialista al potere fino al 2017. La situazione in Sudamerica si conferma in continuo conflitto tra destra liberista e sinistra socialista, senza una predominanza definitiva di una parte sull’altra: dopo la vittoria dei socialisti in Bolivia, che ha ripristinato per altro quella “democratura” stabilita da Evo Morales e che si è di nuovo rivelata tale con il clamoroso arresto dell’ex Presidente di centro-destra Jeanine Anez, in Ecuador i socialisti perdono, e vince la destra liberista di Lasso.

Ciò nonostante, all’esito del primo turno, sembrava che il ballottaggio dovesse svolgersi tutto a sinistra, tra Arauz e Yaku Peretz, rappresentante della sinistra rosso-verde a tutela della popolazione indigena, che per un soffio, tra mille polemiche, era stato infine superato da Guillermo Lasso. Al quarto posto erano poi giunti i socialdemocratici di Xavier Hervas. Com’è possibile quindi che, con una tale percentuale di elettori che nel complesso ha votato a sinistra al primo turno, Lasso sia risultato vincente al secondo?

I soli 400mila voti di differenza tra i votanti complessivi al primo e al secondo turno non bastano a spiegare come sia successo, dato che Lasso comunque ha guadagnato quasi 3 milioni di voti tra un turno e l’altro, mentre Arauz poco più di uno. E allora, cosa è accaduto? Probabilmente gli elettori del partito socialdemocratico hanno votato in massa il centro-destra, così come quelli di ogni altro partito. Yaku Perez è al di sopra di ogni sospetto dato che ha nettamente ribadito la sua contrarietà al supporto di Lasso e anzi ha indetto numerose manifestazioni volte a chiedere il riconteggio, dopo aver toccato il ballottaggio con un dito, senza però raggiungerlo.

Mappa del voto nel 2017 per regione (in rosso il candidato della sinistra, poi vincitore, Lénin Moreno, e in azzurro le regioni in cui ha prevalso Lasso).

Probabilmente, ha prevalso la pura voglia di cambiamento nell’elettorato ecuadoregno: è evidente che molti elettori di Yaku Peretz, anche indigeni, hanno comunque preferito Lasso. Le ragioni sono da rinvenirsi nella delusione nei confronti della sinistra, rappresentata oggi dall’Unione per la Speranza, erede dell’Alleanza PAIS. Dopo aver portato al governo per dieci anni il popolare Rafael Correa, l’uscente Lenin Moreno aveva condotto la sinistra ecuadoregna a posizioni molto più da terza via, preferendo scelte più liberali; ad esempio, implementare e privatizzazioni, cercare prestiti dal FMI anziché farsi appoggiare da potenze esterne (vedasi Cina), rendere più facili le trivellazioni petrolifere nella Foresta Amazzonica, liberalizzare il prezzo della benzina – questo ultimo aspetto, in particolare, aveva portato a proteste molto violente nel 2019. Per ogni ulteriore approfondimento della pregressa situazione politica in Ecuador, vedasi l’articolo della rubrica Il Giramondo.

Certo, poi Correa  e i suoi hanno abbandonato l’Alleanza PAIS – che oggi ottiene un risultato misero, meno del 2% – fondando nel 2018 il Movimento per la Rivoluzione Cittadina e nel 2020 l’Unione per la Speranza, e contestando le politiche di Moreno. Ma le accuse di corruzione nei confronti di Correa, condannato a 8 anni di reclusione dalla Cassazione di Quito ed autoesiliato in Belgio, non hanno permesso alla sinistra correiana di tornare ad acquisire quella popolarità trasversale di cui ha invece, stavolta .goduto Lasso. Che pure sostiene politiche molto più liberiste dell’impopolare Moreno: ma che dire, a volte i risultati politici si muovono in maniera imperscrutabile.

Guillermo Lasso, per decenni banchiere, è stato candidato alla Presidenza per ben tre volte, di cui in due è risultato sconfitto. Ma non deve essere il tipo che si arrende facilmente e la terza volta è invece uscito vincitore dalla sfida. Le sue idee politiche sono eminentemente liberiste: taglio netto delle tasse, austerity nella spesa pubblica, vicinanza agli Stati Uniti.

L’impressione, tuttavia, è che Lasso abbia vinto più per le divisioni della sinistra che per un improvviso spostamento degli Ecuadoregni a destra. Il che lo costringerà, visti anche gli esigui numeri in Parlamento, a trovare accordi, specialmente con i socialdemocratici e la sinistra indigena, e ad accettare numerosi compromessi che limeranno le posizioni più oltranziste.

 

Primo arrivato per regione nel 2021. La suddivisione è tendenzialmente sempre la stessa: le zone montane (al centro) e agricole/forestali (ad est), pro-Lasso, mentre le zone marittime ad ovest pro-Arauz. Anche la suddivisione dei voti all’estero e alle Isole Galapagos (in basso a destra) è la medesima.
Ma qui vediamo anche delle importanti differenze, che si esplicano anche alla luce dei risultati del primo turno, rappresentati dai CERCHI COLORATI. Le zone montane e forestali, quelle più popolate da indigeni, hanno votato Perez, per poi ripiegare non su Arauz, ma su Guillermo Lasso. E’ evidente quindi dove sono finiti i voti di Perez al secondo turno, sebbene lui non si sia speso per il successivo vincitore. Un’altra differenza importante sta nel fatto che la capitale Quito, dove nel 2017 aveva prevalso la sinistra, è l’unica regione ad eccezione delle Galapagos dove oggi Lasso prevale sia al primo sia al secondo turno – e come tale facilmente identificabile nella mappa.

 

SAMOA

Si sono tenute le elezioni parlamentari nelle Samoa. Il risultato ha visto per la prima volta un parità, in termini di seggi ottenuti, tra il Partito per la Protezione dei Diritti Umani di Tuliaepa Aono Sailele Mailielegaoi e il partito Fede nell’Unico Vero Dio di Fiame Naomi Mata’afa.

Il risultato alle Samoa può davvero dirsi travolgente, e ha riflettuto una fortissima necessità di cambiamento per il popolo samoano. Al contempo, tale risultato può rappresentare anche il primo passo di una svolta per la democrazia del Paese, da troppo tempo soffocata dall’uomo solo al comando.

Samoa è una Monarchia costituzionale del Pacifico centrale, con capitale Apia, che fa parte di un ampio arcipelago, l’Arcipelago Samoano, diviso tra Western Samoa (che è appunto un Paese indipendente), composto da due grandi isole, e l’arcipelago di atolli delle American Samoa.

Le Western Samoa, oggi Regno delle Samoa, erano anche chiamate Samoa Tedesche perché colonia della Germania sino al 1914. Dopo una lunga dipendenza dalla Nuova Zelanda, nel 1976, le Samoa hanno ottenuto l’indipendenza e sono entrate a far parte delle Nazioni Unite.

La popolazione è composta da Samoiani, in larga maggioranza, gruppo etnico polinesiano più diffuso dopo i Maori, e minoranze di origine europea e creole, cinesi e perfino di religione iranica.

Dal 2017 il Re è Vaìaletoa Sualauvi II, ma il vero detentore del potere è il plenipotenziario Primo Ministro Tuilaepa Mailielegaoi, al comando dal lontano 1998, leader del partito da sempre dominante nel Paese, il Partito per la Protezione dei Diritti Umani (HRPP). A dispetto del nome, oltre ad essere un “dominant party”, l’HRPP si è affidato a un uomo solo, Mailielegaoi, imprenditore ed economista. Nazionalista, nemico giurato del leader altrettanto poco democratico di Figi Frank Bainimarama, promotore di uno Stato confessionale cristiano-protestante, ha occupato talmente la scena politica da non lasciare spazio ad alcuna opposizione. E non soltanto per la sua strabordante personalità: i suoi uomini nei consigli dei vari villaggi sono stati accusati di interferire nel processo elettorale, e lui stesso ha accusato l’opposizione di FAST di “tradimento” perché i suoi membri erano talvolta assenti dal Parlamento durante la campagna elettorale, ordinando inchieste a loro carico.

 

Mailielegaoi ha oggi subito una parità che per lui è una storica sconfitta. Le ragioni sono diverse,  e non solo il desiderio di cambiamento e di maggiore democrazia. Il Primo Ministro ha fatto due proposte molto controverse: la prima è lo spostamento di Samoa a ovest della Linea Internazionale di Cambiamento di Data, per implementare maggiore facilità nei traffici commerciali con Australia e Nuova Zelanda. La seconda è il Land and Titles Act, una riforma che stabilisce una corte speciale, che non permette alcuna possibilità di appello, in materia di proprietà (secondo un principio giuridico indigeno, normalmente regolata da un diritto consuetudinario).

Il partito si è diviso, e molti dei dissidenti hanno formato la nuova alleanza “FAST”, sotto l’egida di Fiame Mata’afa, ex supporter di Mailielegaoi , e adesso sua acerrima nemica. Non sole propone di buttare al macero tutte queste proposte di riforma, ma vuole anche introdurre il limite dei due mandati alla carica di Primo Ministro.

Uno smacco, così come è uno smacco anche il risultato elettorale, per il Primo Ministro in carica, che adesso vede la poltrona traballare sotto i suoi piedi. 25 a 25, e un indipendente: questo il risultato finale delle elezioni. Ma chi la avrà infine vinta, nella complessa politica samoana, resta ancora questione aperta.

BENIN

Si sono tenute le elezioni presidenziali in Benin, dove è tornato a vincere il Presidente uscente Patrice Talon, stavolta con l’86% dei suffragi.

Gli ampissimi numeri della vittoria sono dovuti al colpo di mano di Talon, che ha stabilito per legge condizioni impossibili per candidarsi contro di lui, e al boicottaggio dell’opposizione. Il boicottaggio è seguito a propria volta a un mese di violentissime proteste nelle piazze, che sono state represse con durezza.

Ma cosa sta succedendo in Benin? E più in generale, cosa sta succedendo nel West Africa?

Abbiamo visto come l’Africa, negli ultimi anni, sia stata interessata da un processo di democratizzazione che ha fatto cadere numerosi regimi e ha portato alla luce una dialettica e una voglia di cambiamento che fuori dal Continente nero molti non si aspettavano. Per quanto ogni regione e ogni nazione abbiano una storia a sé, abbiamo visto sia nel Nord che nel Centro dell’Africa dittature di lunga data crollare (si pensi a Kabila, a Mugabe, al Sudan, per fare tre esempi, al Centrafrica, al Burkina Faso, all’Etiopia ecc.), e venire sostituite da sistemi molto fragili ma comunque, in qualche modo, diversi.

L’affluenza si è attestata al 50%, un crollo di sedici punti rispetto alle ultime elezioni, evidente risultato del boicottaggio dell’opposizione.

Il West Africa, al contrario, sembra che stia subendo il destino opposto, almeno negli ultimi mesi. Regione di maggiore vitalità economica, democratica e politica rispetto ad altre realtà africane, l’Africa guineana è stata interessata recentemente da una serie di “ricadute” nell’autoritarismo con effetto domino. Sia la Guinea di Alpha Condé sia la Costa d’Avorio dell’ex idolo occidentale Alassane Ouattara hanno visto i loro Presidenti estendere il limite dei due mandati per ripresentarsi, contestati nelle piazze e incontestati alle elezioni. Nel caso di Talon, l’ex imprenditore beninese, pur avendo promesso di non ricandidarsi, aveva comunque svolto un solo mandato. Del secondo però a quanto pare voleva avere certezza: il suo Governo ha infatti introdotto una legge che permette la candidatura solo a chi riesce a ottenere l’approvazione del 10% dei membri del Parlamento e dei sindaci in carica. Peccato che in Parlamento ci siano solo partiti che oggi lo sostengano. La leader dell’opposizione Reckya Madougou è inoltre finita in carcere con accuse giudicate da molti osservatori pretestuose.

Così, Talon vince con una percentuale assurda per qualsiasi democrazia.

Costa d’Avorio, Guinea, e Benin. Chi sarà il prossimo?

 

Altre notizie:

PERU’ – Si è svolto il primo turno delle elezioni in Perù. Al ballottaggio, del tutto inaspettatamente rispetto ai sondaggi, vanno due estremisti: l’estremista di destra Keiko Fujimori, figlia dell’ex dittatore Alberto, più volte candidata Presidente, e l’estremista marxista Pedro Castillo, socialista alla venezuelana ma al contempo conservatore e contrario all’implementazione dei diritti civili. La battaglia rientra sempre nel sopramenzionato scenario sudamericano di guerra continua tra destra e socialismo, ma in questo caso entrambi i candidati sono davvero agli estremi. Ma forse, per certi versi, non così agli antipodi.

KIRGHIZISTAN – In Kirghizistan il neo-Presidente autoritario Sadyr Japarov ha consolidato il suo potere grazie al referendum che ha approvato la nuova Costituzione, che trasforma la Repubblica da parlamentare a presidenziale, affidando de facto ogni potere nelle sue mani.

GIBUTI – Il dittatore dal 1999 del Paese africano, Ismail Omar Guelleh, detto IOG, che è succeduto a sua volta al suo dittatore-zio Hassan Gouled, è stato rieletto con il 97% dei voti in un’elezione facilmente giudicabile come farsa. Il Paese, che affaccia le sue coste davanti a quelle dello Yemen in guerra, sta subendo un’importante crisi economica e occupazionale che aumenta il malcontento popolare ma che a quanto pare non può scalfire lo strapotere del regime.

Per questa settimana è tutto.

Alla prossima elezione!

Skorpios

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