Si sono svolte le elezioni parlamentari in Israele, che hanno visto prevalere, come primo partito, Consolidamento (Likud) dell’imbattuto Primo Ministro Benjamin Netanyahu.
Chi segue questa rubrica assiduamente sa che questa è la quarta elezione in soli due anni, visto che si sono rincorse diverse tornate elettorali a seguito delle quali il Likud ha primeggiato senza però ottenere una maggioranza che gli permettesse di garantire lunga vita al Governo. Queste tornate si sono svolte ad aprile e settembre 2019, a marzo 2020 e infine ora.
Netanyahu, premier dal 2009 e che si appresta (o quantomeno vorrebbe apprestarsi) a governare sino al 2025, meta che gli farebbe raggiungere i sedici anni ininterrotti al Governo, a cui se ne aggiungono altri tre negli anni 90, è ormai padre padrone di un nuovo Israele. Un Israele ha abbandonato le velleità sia laburiste e progressiste che liberali, e si innesta invece in un contesto molto più simile a quello degli altri Paesi del Medio Oriente, con le dovute ed evidentissime differenze – in primis l’enorme sviluppo tecnologico, l’economia solida, e chiaramente la differente religione dominante.
L’Israele di Netanyahu è quindi un Paese meno laico, più religioso, più nazionalista, meno plurale, ma egualmente conflittuale, rispetto a quello che ha rappresentato Israele nel corso degli anni della sua storia. Anche più populista e personalista: la guerra di Netanyahu è innanzitutto una guerra personale, per sfuggire secondo la via “berlusconiana” dalle accuse di corruzione dei pubblici ministeri israeliani. Che secondo lui, non servirebbe nemmeno dirlo, non fanno il proprio mestiere ma anzi lo vogliono far fuori dalla politica.
L’ultimo periodo dell’era Netanyahu ha però visto delle importantissime novità nella modalità con cui il Governo di Gerusalemme-Tel Aviv si approccia sia all’esterno, che all’interno. Per volontà dell’amico Donald Trump, Netanyahu si è trovato a dover discutere esplicitamente con i capi delle petrolmonarchie locali, stringendo degli accordi di pace (Arabia Saudita, Emirati Arabi, Bahrein). Un cambio di passo che è stato visto sia come una distensione con Paesi con cui i rapporti, in realtà, erano sempre più distesi sebbene in maniera meno plateale, sia come un’uscita dall’accerchiamo israeliano in nome delle relazioni economiche e strategiche – ad esempio, in funzione anti-Iran, il vero nemico attuale di Israele.
L’affluenza si è attestata al 67% c.ca, in calo di ben 5 punti dall’elezione dello scorso anno.
Si è quindi superata l’ipocrisia che vedeva i capi delle monarchie arabe fingere di interessarsi alla questione palestinese, vera dimenticata e ormai sconfitta, per mancanza di sponsor. La soluzione politica “Due popoli due Stati” appare sempre più vicina ad essere relegata in cantina, a causa della forte influenza della destra israeliana coadiuvata dai Repubblicani USA e non completamente inascoltata anche dai Democratici di Biden.
E’ probabile che la svolta abbia riflessioni anche in politica interna. Netanyahu per l’ennesima volta non raggiunge una maggioranza solida; la coalizione di destra di cui fa parte Likud (Likud + tre partiti della destra religiosa) raggiunge i 52 seggi sui 61 necessari per la maggioranza assoluta. Già da prima le elezioni ,tuttavia, appariva abbastanza chiaro che l’estrema destra filo-coloni e anti-palestinese di Yamina si sarebbe unita al gruppetto, di cui quest’anno fanno parte ben tre partiti religiosi (Shas – ebrei charedì, mizrahì e sefarditi; Ebraismo Unito per la Torah (UTJ) – ebrei ashkenaziti; e i fondamentalisti del Partito Sionista Religioso – estrema destra ultraortodossa). Si arriverebbe dunque a 59 seggi, che non bastano per la maggioranza.
Primo partito per distretto, rispettivamente alle elezioni di settembre 2019, marzo 2020 e di marzo 2021. Si può assistere alla sparizione dei liberali di Blu e Bianco, forti sulla zona costiera e nella popolosa Tel Aviv. La forte presenza araba in Galilea ha fatto prevalere la Lista Unita l’anno scorso. Oggi, però, il Likud vince dappertutto, tranne a Gerusalemme, dove prevale il partito rappresentativo dei religiosi ashkenaziti.
Ma c’è una novità. Entra in Parlamento la Lista Araba Unita (Ra’am), dopo la scissione dalla Lista Unita dei partiti rappresentanti degli arabi israeliani. Ra’am è una lista dichiaratamente di destra, vicina ai valori tradizionali islamici, a tutela degli arabi israeliani ma anche non lontana dai Fratelli Musulmani. Che si è mostrata da subito aperta a un’innovativa idea di partito arabo che sostiene la destra di Netanyahu. Una riproposizione in chiave interna dell’amalgama che si è già formato all’estero.
Non è certo che vada in porto. Le resistenze sono fortissime, soprattutto da parte di Yamina e del Partito Sionista Religioso. La destra israeliana è divisa in molti partiti, però è al contempo infinita e piena di risorse. Quando si forma un nuovo partito, infatti, di destra, destra religiosa o estrema destra, sembra quasi naturale che trovi successo, nonostante la copertura dello spazio politico da parte dei preesistenti. Basti pensare che fuori dalla coalizione ci sono comunque Ysrael Beteinu di Lieberman (desta laica delle minoranze ebraiche russe) e Nuova Speranza, i liberalconservatori dell’ex likudino, poi rivale di Benjamin N., Gideon Sa’ar.
A Netanyahu non serve per ora una coalizione di tutte le destre amiche, Ra’am compreso. Basta che votino contro la proposta di legge dell’opposizione di vietare l’assunzione di incarichi di Governo a politici sotto processo. Prima di tutto la salvezza, infine tutto il resto.
Nell’opposizione, come tutte le altre volte, le strade sono piene (di manifestanti) e i seggi sono vuoti. Punito Bianco e Blu di Benny Gantz, che nel 2020 si è fatto truffare con tutte le scarpe da Netanyahu il quale gli aveva promesso, dopo le scorse elezioni, di alternarsi ia potere, portandolo a rinnegare quanto giurato elettori. I Laburisti, altrettanto ridotti alla desertificazione, recuperano seggi grazie alla nuova leadership di Merav Michaeli. La sinistra filo-araba crolla a causa dell’uscita di Ra’am, mentre migliorano gli ambientalisti di Meretz, pur restando non determinanti.
Tutto sembra comunque protendere verso l’ennesimo (accidentato) mandato di Benjamin Netanyahu. Se non con Ra’am, con potenziali transfughi degli altri partiti di destra. Del resto il trasformismo è una vecchia tradizione sotto il sole di Tel Aviv.
Anche per questa settimana è tutto.
Alla prossima elezione!
Skorpios
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