Si sono svolte le elezioni parlamentari nella piccola Repubblica di Trinidad e Tobago.
Le elezioni hanno visto primeggiare, di pochi punti percentuale, il Movimento Nazionalpopolare (PNM)del Primo Ministro uscente Keith Rowley. Al secondo posto il principale sfidante, il Congresso Unito Nazionale (UNC) dell’ex premier socialdemocratica Kamla Persad-Bissessar.
L’affluenza si è attestata al 58%, in calo di ben 8,8 punti dall’ultima tornata elettorale.
“A Trinidad, con un dollaro si compra succo di papaia, una torta di banana, sei noci di cocco, una capra femmina, e abbastanza pesce da riempirci una barca, un cesto di pane, una botte di vino, e tutta la città può venire a cena” – questo diceva una canzone di Calypso Rose, la madre dell’omonimo genere trinidiano, il calypso, confrontando efficacemente i prezzi a Trinidad rispetto al carovita statunitense, dove con un dollaro si compra appena “una tazza di caffè e un panino di segale al prosciutto”. Oggi la situazione a Trinidad e Tobago è molto cambiata, con una situazione economica molto più agiata grazie alle riserve di petrolio e di gas naturale di cui può beneficiare. Tuttavia, permangono ancora problemi e dopo il boom, tanto rapido quanto improvviso, l’economia sta subendo una fase di stagnazione.
Il sistema politico trinidiano è sostanzialmente bipartitico. Il PNM e l’Unione per il Congresso Nazionale si contendono il potere dal 1991, con una prevalenza di vittorie per il primo, un partito moderato espressione di quel ceto medio di origine africana che è riuscito a imporsi sulle isole, portando il Paese all’indipendenza dal Regno Unito nel 1962. L’UNC, oggi partito socialdemocratico, inizialmente proponeva politiche più spostate a destra, come la riduzione delle tasse e il rafforzamento delle forze di sicurezza, approfittando della crisi economica che negli anni 90 colpì duramente la nazione dei bassi Caraibi.
Partiti vincitori per circoscrizioni elettorali uninominali. La ripartizione politica riflette spesso anche la ripartizione demografica; per esempio, nelle aree centrali gli indo-trinidiani raggiungono quasi il 60% della popolazione. Non così a nord, a sud-ovest e a Tobago, dove prevalgono gli afro-trinidiani.
E’ con Kamla Persad-Bissessar,primo Capo del Governo donna di Trinidad e Tobago, di origine indiana – si ricorda la rilevanza delle comunità indo-americane anche nelle vicine Guyana e Suriname -, che l’UNC si è spostato più verso il socialismo, facendo perno nelle campagne elettorali sull’ingiustizia sociale come conseguenza delle politiche liberali del PNM. Persad-Bissessar è rimasta Primo Ministro fino al 2015, per essere poi di nuovo battuta dal PNM, con un nuovo leader, Keith Rowley.
La vittoria di Rowley fu dovuta anche all’appoggio delle industrie del gas naturale – lo stesso Rowley è un geochimico esperto nel settore – , uno dei settori economici più importanti del Paese, in relazione al quale lo stesso proponeva incentivi e liberalizzazioni.
Durante il governo Rowley tuttavia l’economia di Trinidad e Tobago ha subito una fase di stagnazione e questo ha portato ad un aumento della microcriminalità. Di fronte alle rimostranze sul punto di Persad-Bissessar, Rowley ha accusato il partito vicino agli indo-trinidiani di fare campagna razzista contro gli afro-trinidiani, accostandoli all’illegalità. UNC ha anche promesso una maggiore lotta all’immigrazione clandestina. Sia il PNM sia l’UNC, in campagna elettorale, hanno per altro subito violente discussioni interne contro i propri medesimi leader. In molti per altro proponevano di rimandare le elezioni in virtù della pandemia, ma sono rimasti inascoltati.
Il sistema uninominale secco che vige a Trinidad e Tobago non ha comunque portato a grandi stravolgimenti rispetto al complesso dei voti riportati dai singoli partiti. Rowley ha vinto le elezioni, pur perdendo consensi, ma ha ottenuto una maggioranza di appena un seggio rispetto a quello dell’opposizione dell’UNC.
Nonostante l’aumento, di ben 7 punti, dei suffragi rispetto alle ultime elezioni, è probabile che questa sia l’ultima volta di Persad-Bissessar come leader dell’UNC, e che non si ripresenterà alle prossime primarie del partito. Rowley, invece, è stato incaricato di formare un secondo governo dalla Presidente della Repubblica Paula Mae-Weekes.
Altre notizie:
1) In MALI è caduta la Presidenza di Ibrahim Keita. Un colpo di Stato militare ha deposto il Presidente, democraticamente eletto, un tempo popolarissimo e poi duramente contestato a seguito della ripresa della violenza islamista della regione. Keita aveva scelto la strada del dialogo con le organizzazioni islamiste che imperversano nel Sahara dell’ovest, ma non aveva (ancora) dato frutti, anzi, nel 2019 e nel 2020 sono aumentati gli scontri e di conseguenza le vittime. Le forti proteste nelle strade hanno dato l’idea all’esercito di deporre il Presidente – che ha deciso di non opporsi per evitare spargimenti di sangue- e di instaurare una giunta militare comandata dal Colonnello Assimi Goita. La giunta in un primo momento ha assicurato che nuove elezioni politiche saranno organizzate a breve, ma adesso ci ha ripensato, annunciando che per almeno tre anni i militari hanno voglia di governare indisturbati. La giunta assicura anche una lotta molto più militare che diplomatica contro gli islamisti. Chissà se più efficace; sicuramente interromperà il lavoro poco popolare portato avanti dall’ex Presidente. Mentre i Paesi africani condannano senza appello il colpo di Stato e hanno chiesto – ottenendola – quantomeno la liberazione di Keita, la Francia sta a guardare, in attesa di capire se anche la giunta continuerà a mantenere la fedeltà maliana nei confronti della malcelata ombra coloniale della Françafrique. Oggi Keita è stato liberato. Ma il vero problema del Mali è un altro, a cui la politica maliana non pensa nemmeno di volgere lo sguardo: la spaventosa crescita demografica, totalmente incontrollata, che rischia di creare sempre più insicurezza politica, economica e sociale in una regione con poche risorse. 2) In LIBANO dopo l’esplosione che ha coinvolto il porto di Beirut e le ennesime manifestazioni di piazza, si è dimesso il Primo Ministro, a capo dell’ennesimo governo di coalizione, Hassan Diab. Il Presidente Aoun chiede un nuovo governo tecnico ma probabilmente il miglior modo di uscirne sarebbero nuove elezioni e una riforma costituzionale che superi l’imbalsamato e ormai superato sistema che ripartisce le istituzioni su base etnico-religiosa. 3) In MACEDONIA (del Nord) si è formato il secondo governo di Zoran Zaev, con l’appoggio dei filo-albanesi del DUI; sono esclusi invece i rivali di questi ultimi, Alleanza per gli Albanesi. La maggioranza ha oggi solo un seggio di vantaggio sull’opposizione. L’accordo prevede un governo di 100 giorni di Zaev, che dovrebbe poi essere sostituito con un Primo Ministro di etnia albanese.
4) In BIELORUSSIA Lukashenko ha promesso repressione violenta nei confronti dei dissidenti, che al 25 agosto dichiarano “siamo maggioranza”. Però, al contrario del regime, non possiedono carri armati, e quindi molti temono un bagno di sangue. Gli oppositori – furbescamente – non chiedono più vicinanza all’UE e non rinnegano il rapporto con la Russia. Giungono quindi strane parole di soddisfazione da parte del portavoce del Cremlino, Peskov. Putin ad oggi, al di là delle parole, ha scelto la linea del non-intervento: pare voglia vedere cosa succede. Una parte del regime suggerisce che potrebbe crearsi una nuova situazione alla armena e alla kirghisa: una rivoluzione democratica non ostile alla Russia. Un’altra parte tuttavia mette in guardia il Presidente: una democrazia vera potrebbe portare al governo, un giorno, anche un partito anti-russo. Cosa che non può avvenire in dittatura, o quantomeno, non può avvenire tanto facilmente. Dubbi teorici, ad oggi: Lukashenko sembra imbattibile, finché ha esercito e polizia dalla sua.
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