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IL MAPPAMONDO – Il Kosovo sempre più vicino all’Albania, ma la meta è ancora lontana; elezioni in Liechtenstein e in Niger

KOSOVO

Terremoto politico in Kosovo.

Si sono svolte le elezioni parlamentari, da cui è uscito vincitore, letteralmente stra-vincendo, il socialista Albin Kurti, che ha battuto i partiti di centrodestra da anni al Governo.

Nonostante le elezioni si siano tenute il 14 febbraio, i risultati definitivi ed i seggi attribuiti sono stati pubblicati solo pochi giorni fa, dopo essere stati definiti dalla Commissione Elettorale solamente in data 3 marzo. 

Kurti era già stato Primo Ministro nel 2020, ma solo per pochi mesi, a seguito dei quali il suo Governo, fragile nei numeri e nelle alleanze, aveva dovuto subire il ribaltone dei vari partiti liberalconservatori uniti, da cui era sorta una coalizione dominata dai liberalconservatori della Lega Democratica per il Kosovo, con a capo Avdullah Hoti.

L’affluenza, tradizionalmente molto bassa, si è attestata intorno al 48% degli aventi diritto, in aumento di circa 3 punti rispetto alle elezioni del 2019.

Albin Kurti è visto come la vera novità che sbaraglia i politici del nuovo Kosovo, da Hashim Thaci in poi. Un primo attacco alla “tradizione” era venuto a novembre, quando Thaci, lo storico conservatore alla presidenza del Paese, si è dimesso a seguito delle notizie su un’indagine nei suoi confronti per crimini di guerra commessi ai tempi del conflitto (e non solo) nei confronti di Serbi e Rom, così come anche di Kosovari albanesi. E’ quindi salita al potere Vjosa Osmani, una moderata centrista, giurista giovane e donna, che aveva rappresentato lo specchietto per allodole del LDK, candidata premier alle ultime elezioni contro lo stesso Kurti. Ma Osmani evidentemente ha saputo sfruttare il suo profilo indipendente per dissociarsi dal Governo in carica e passare poi a ricandidarsi, per le prossime presidenziali del 2021, proprio sotto le file del Movimento per l’Autodeterminazione di Kurti. Senza peli sullo stomaco.

Primo partito per municipalità. Albin Kurti vince un po’ dappertutto, Pristina inclusa, mentre i nazionalisti filo-albanesi di AAK prevalgono nelle province vicino all’Albania, e la Lista dei Serbi soprattutto a nord e in certe zone a Oriente, dove è forte la presenza di minoranze serbe. Interessante la vittoria di un partito a tutela della minoranza turca a Mamusa, una cittadina dove più del 90% degli abitanti sono di etnia turca. Il PDK è forte in aree dominate da cittadini di etnia albanese, ma tuttavia più rurali.

Albin Kurti, che ha partecipato in prima persona (subendo anche la tortura ed infine il carcere) alla guerra per l’indipendenza dalla Jugoslavia, è anche il simbolo della contrarietà alle mezze misure e al dialogo con la Serbia. Il sogno è quello della Grande Albania, e cioè di Kosovo sia unito a Tirana (per i nazionalisti albanesi, insieme al Montenegro, all’Epiro greco e ad una parte della Macedonia).

La vittoria di Kurti è landslide, al di sopra di ogni aspettativa. Questo non vuol dire che la Grande Albania sia vicina: oltre alle pressioni internazionali ed europee per evitare instabilità e conflitti anche non necessariamente armati con la Serbia, la stessa Tirana di Edi Rama sarebbe un po’ titubante ad un’unificazione che porterebbe i musulmani d’Albania a diventare una maggioranza preponderante. Una cosa è certa: Advullah Hoti, sotto la supervisione di Donald Trump, aveva firmato un accordo economico con funzione di distensione con Belgrado solo lo scorso settembre.

Difficile che ora tale distensione continui come nulla fosse.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LIECHTENSTEIN

 

Le elezioni parlamentari del piccolo Principato del Liechtenstein si sono concluse con la vittoria dei liberalconservatori dell’Unione Patriottica, che hanno visto un recupero dei propri consensi come anche il Partito Progressista dei Cittadini di Adrian Hasler, sebbene arrivato al secondo posto.

L’affluenza è rimasta stabile rispetto al 2017 e si è attestata al 78% degli aventi diritto.

Nel corso della sua storia democratica, il Principato ha visto contendere il potere governativo tra la VU (liberalconservatori) e il FBP (conservatori monarchici). Entrambi i partiti,  soprattutto il FBP, sono stati però fortemente influenzati dallo strapotere della famiglia reale, a partire dal mezzo secolo di principato di Francesco Giuseppe II, un regnante che rese la monarchia liechtensteiner molto popolare. Suo figlio, Giovanni Adamo II, si è sempre mostrato propenso a un interventismo ancora più rilevante: quando nel 2003 è stato proposto un referendum per restringere o ampliare i poteri del Principe, ha minacciato gli elettori di andarsene in caso di risultato a sé non favorevole. Il Principe ha quindi acquisito il potere di veto, di nomina dei giudici e di far dimettere il Governo, una forza maggiore di quella di un Presidente della Repubblica, un’autorità molto criticata a livello internazionale (anche dal Consiglio d’Europa).

Dal 2013, tuttavia, il sistema si è incrinato, quando è entrato nel giogo politico DU – Gli Indipendenti, un partito di estrema destra anti-establishment. DU ha ottenuto il 15% al proprio debutto, ha poi superato il 17% alle ultime elezioni, mettendo in crisi il sistema tradizionale che vedeva un sostanziale bipartitismo della VU e del FBP, mai minacciato nemmeno dai socialdemocratici, sempre minoritari, e altresì costringendo questi due partiti ad allearsi.

La pandemia ha però, evidentemente, rafforzato i partiti al governo anche in Liechtenstein, anche se il FBP del premier Adrian Hasler giunge solo al secondo posto, rendendo più aleatoria la sua permanenza come Primo Ministro. In realtà il DU, brutalmente crollato, è stato sostituito dai Democratici per il Liechtenstein di Thomas Rehak, una formazione nata da fuoriusciti dal partito nazionalista a seguito di dissidi interni. Il nuovo partito ha, in ogni caso, ottenuto “solo” l’11% delle preferenze.

NIGER

Il 21 febbraio si è tenuto il secondo turno delle elezioni presidenziali in Niger.

Vincitore, secondo i risultati pubblicati pochi giorni or sono, ne è uscito il favorito Mohamed Bazoum, erede del due volte Presidente Mahamadou Issoufou.

Il Paese dell’Africa subsahariana è classificato dal rapporto Freedom House come Paese democratico  ma parzialmente libero, vista comunque la grande forza del Partito Nigerino per la Democrazia e del Socialismo del Presidente uscente ma anche i rischi per la sicurezza sempre più forti provenienti dagli islamisti del deserto e le sempre più vicine minacce dell’organizzazione nigeriana Boko Haram.

L’affluenza si è attestata al 70% al primo turno – in aumento di quattro punti rispetto alla tornata elettorale del 2016 – e intorno al 63% al secondo turno.

Mohamed Issoufou, Presidente per dieci anni, ora uscente, dopo un periodo di rivalità negli anni 90 con l’allora Presidente Mahamane Ousmane, l’altro grande potenziale vincitore di queste elezioni, fu arrestato in occasione del golpe dei militari. Per i periodi successivi e durante i governi vicini ai militari Issofou rimase parlamentare, e rientrò in politica solo dopo un nuovo golpe, che nel 2011 aprì la strada a nuove elezioni democratiche. Anche Issoufou ha dovuto sfuggire ai tentativi di golpe, ma nonostante ciò è sempre sopravvissuto, e ha portato il Niger, sebbene su posizioni teoricamente vicine alla socialdemocrazia, anche molto vicino all’Occidente, di cui è divenuto un fedele riferimento. Ha superato la rielezione, nonostante le proteste dell’opposizione che lo ha accusato di brogli.

Dopo due mandati ha deciso di lasciare il potere, cosa non scontata per un Paese africano. Mohamed Bazoum, il suo successore, ha, altrettanto, una lunghissima storia nel PNDS, anch’egli con un passato di arresti per accuse di tentativo di assassinio dell’ex capo della giunta militare Mainassara. Bazoum è un diplomatico, sia in politica interna sia in politica estera, grazie al suo passato come Ministro degli Esteri. Il vincitore delle elezioni è rimasto Ministro sino al 2016, quando ha deciso di concentrarsi sulla leadership.

Ma Ousmane, il vecchio ex Presidente, ora settantenne, e anziano rivale di Issofou, denuncia frodi. Frodi che in alcune circoscrizioni per altro sono state confermate da percentuali di votanti al 103% degli aventi diritto. Il voto nel complesso si è svolto quindi in maniera solo parzialmente democratica.
Il diplomatico Bazoum, anche per fronteggiare le proteste, cerca ora un coinvolgimento dell’opposizione nel nuovo governo, anche vista la mancata maggioranza assoluta alle contemporanee elezioni parlamentari

Altre notizie:

COSTA D’AVORIO – Si sono tenute le elezioni parlamentari nella Costa d’Avorio. La Costa d’Avorio è una repubblica presidenziale, che ha visto l’anno scorso uno slittamento da un sistema democratico ad un sistema sempre più autoritario a causa del mancato rispetto del limite dei due mandati da parte di Alassane Ouattara, un tempo considerato la nuova speranza dell’Occidente e poi relegato a un triste destino di ennesimo leader autocratico come tanti altri. Una progressione dell’autoritarismo che si è riflessa anche nei risultati recentissime elezioni parlamentari. Il partito di Ouattara, il Raggruppamento degli Houphouetisti – partito liberale che si rifà agli ideali del padre della patria ivoriana Hophouet – per la Democrazia e la Pace, ha ottenuto ben 167 seggi, a fronte dei 76 ottenuti dagli indipendenti, e dai 12 (solo 12) ripartiti tra i partiti dell’opposizione (6 ai liberali dell’UDPCI, 3 ai socialisti dell’FPI e 3 ai centristi dell’UPCI). 

MYANMAR – Il popolo birmano non è rimasto tranquillo dopo il colpo di Stato dei generali, che, dopo aver ottenuto poco più del 4% alle ultime elezioni dell’autunno del 2020, hanno deciso che la democrazia non fa per loro, facendo arrestare i leader democratici del Paese – ivi inclusa la Consigliera di Stato, una figura simile al Primo Ministro, Aung San Suu Kyi. I giovani e gli oppositori con manifestazioni di piazz,a nonché molti lavoratori con uno sciopero generale, hanno protestato pacificamente contro il golpe che ha portato al potere il sanguinario Min Aung Hlaing, Comandante in Capo della giunta, nemico giurato di molte minoranze etniche (compresi i Rohingya) e a capo delle forze armate dal 2011. Dall’estero le reazioni sono state di condanna: dall’India e dall’Occidente (sebbene piccato con Suu Kyi per il silenzio sul massacro dei Rohingya), dagli Stati Uniti e anche dalla Cina, che aveva instaurato un buon rapporto con il nuovo governo e che ora si trova a dover rinegoziare tutto. Per quanto certo non sia nemica dei militari, come invece tutti gli altri. Le proteste si sono fatte sempre più intense e i soldati hanno risposto con la forza. Negli ultimi giorni hanno iniziato a sparare, e si sono annoverati i primi morti.

ECUADOR – Si è tenuto il primo turno delle presidenziali del rossissimo Ecuador. Rossissimo non è un aggettivo utilizzato a caso: stavano per finire al ballottaggio ben due partiti di sinistra, il correiano Unione per la Speranza con Andres Arauz e la sinistra filo-indigena di Yaku Perez. Invece, è giunto secondo, e andrà al ballottaggio, Guillermo Lasso, banchiere e candidato del centro-destra sin dal 2013 – senza mai vincere le elezioni.

GEORGIA – Si è dimesso il Primo Ministro della Georgia Giorgi Gakharia. Il Paese sta vivendo una fortissima crisi politica, viste le tensioni tra il partito al governo, europeista e socialdemocratico, Sogno Georgiano, e l’opposizione nazionalista di destra filoamericana, guidata dall’ex Presidente barricadero Saakashvili. Gakharia aveva infatti proposto di arrestare uno dei principali leader dell’opposizione, Nika Melia, per avere promosso le manifestazioni violente che hanno recentemente messo a soqquadro il Paese. Una proposta forte, non supportata dagli alleati di Governo. Così, Gakharia si è dimesso, non prima di aver lasciato la sua carica a Irakli Garibashvili, che sull’arresto la pensava esattamente come lui. Così, l’oppositore Nika Melia è finito dietro le sbarre. La battaglia continua a Tbilisi. 

Per questa settimana è tutto. Alla prossima elezione!

Skorpios

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