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IL MAPPAMONDO – L’Africa che torna indietro: autoritarismo di ritorno in Guinea e Tanzania; ma le Seychelles cambiano passo

In questo autunno che sta scuotendo come mai negli ultimi decenni il mondo intero, l’Africa è scossa da diversi movimenti in direzione ostinata e contraria a quelli che, negli ultimissimi anni, l’hanno invece portata a grandi cambiamenti e a processi democratici anche in Paesi dove sembrava fino a poco fa totalmente impensabile (l’ultimo, il Sudan).
Burkina Faso, Centrafrica, RDC, Zimbabwe, Algeria, Sudan, Mauritania, Gambia, Etiopia e altre nazioni hanno visto scosse telluriche di inclinazione al cambiamento, di insoddisfazione verso i precedenti regimi, e sebbene, nella maggior parte dei casi, a queste scosse non sia conseguita una vera e totale democratizzazione unita con un trasparente multipartitismo, in ogni caso esse hanno sempre portato a novità positive e comunque a una maggiore pluralità in zone dove essa sembrava impensabile.

Ci sono però eccezioni. E queste eccezioni, in questi tempi, si stanno facendo sentire. Sia in Paesi di vecchie dittature, di cui non riescono a liberarsi (come Ciad, Uganda, Congo e Camerun),- magari con l’ausilio più o meno indiretto di qualche potenza straniera, anche Occidentale – sia in Paesi che sembravano invece più inclini al pluralismo e al rispetto delle regole democratiche minime.

E questi sono i casi di Guinea, Tanzania e, prossimamente, con ogni probabilità, della Costa d’Avorio, nella tornata elettorale che già si è tenuta ma di cui ancora non sono stati resi noti i risultati.  Gli elementi-base di questi eventi sono sempre gli stessi: democrazie fragili e Capi di Stato ammalati di potere eterno o, comunque, il più lungo possibile.

GUINEA

 

In Guinea il Presidente in carica Alpha Condé è stato rieletto per la terza volta.

Non doveva accadere, ma Condé si è ricandidato per un terzo mandato; e ciò, con la classica modalità del “referendum-fake” per legittimare il superamento del limite dei due mandati, che è in vigore in molti Paesi africani ma che spesso si trova un modo di non rispettare. Ma non è accaduto solo questo.

Dopo decenni di dittatura (intervallata da momenti di democrazia nonché da altri falsi referendum per lasciare al potere il leader in carica, tradizione antica), nel 2008, la Guinea ha subito un colpo di Stato militare. La giunta, oggetto di minacce da membri militari e civili del Paese, tutti affamati della conquista del trono di Conakry, si è dimessa ben presto. Ne sono seguite, finalmente, elezioni democratiche in cui ha prevalso Alpha Condé, un antico nemico del precedente dittatore Lansana Conté e strenuo avversario dei suoi referendum-fake, leader dei socialdemocratici del Raggruppamento del Popolo Guineano. Condé ha ottenuto la presidenza sconfiggendo il rivale Cellou D. Diallo, battuto nuovamente nel 2015, complice la grande crescita economica di cui ha beneficiato la nazione affacciata sull’omonimo Golfo. Con il suo partito al potere, la Guinea ha vissuto una fase intermedia, in cui convivevano contemporaneamente multipartitismo, una relativa democrazia e un controllo serrato dei media e dei centri nevralgici del potere da parte di Condé. L’UE e l’Unione Africana hanno sempre considerato le elezioni del 2010 e del 2015 valide, sebbene caratterizzate da evidenti criticità.

L’affluenza si è attestata al 79%, un crollo verticale di ben 17 punti dalla tornata elettorale del 2015 (con affluenza altissima al 96%).

A marzo di quest’anno, Alpha Condé ha organizzato un referendum, che ça va sans dire ha vinto, in modo da permettersi di superare il limite dei due mandati. Già dall’ottobre dell’anno scorso, però, si sono susseguite proteste sempre più violente in tutte le città del Paese, contro quest’ipotesi, contro Condé e più in generale a difesa della democrazia. L’opposizione ha accusato il Presidente di golpe istituzionale, e le forze armate hanno represso – in parte, anche nel sangue – le manifestazioni. Condé ha quindi fatto esattamente ciò che aveva criticato del vecchio dittatore Conté; per altro sostenuto dalla comunità Malinké, uno dei maggiori gruppi etnici del West Africa.

Pure le elezioni si sono tenute in un clima di mancata trasparenza. Dopo i primi seggi spogliati, le proiezioni davano vincitore certo il suo oppositore Diallo.  A quel punto, tutto si è bloccato, i risultati non sono più usciti sino a quattro giorni dopo, quando la Commissione Elettorale ha dichiarato vincitore Alpha Condé.  Chi lo avrebbe mai detto. Le proteste di piazza e gli scontri anche  post-elettorali che hanno già provocato delle vittime non sono servite a nulla. Condé si difende, sostenendo di non essere un dittatore.

TANZANIA

Non se la passa meglio la Tanzania, dove le elezioni sono state nuovamente vinte dal Presidente uscente John Magufuli, con una percentuale bulgara corrispondente all’84% dei voti.

In Tanzania vige un sistema bipartitico, ma da ben 40 anni esatti vince sempre lo stesso partito, il Partito della Rivoluzione (Chama Cha Mapinduzi), eredità del padre della nazione Julius Nyerere. Questo però ha portato il sistema politico tanzaniano ad essere più oligarchico che dittatoriale, con capi di Stato che si sono succeduti e hanno comunque rispettato il limite dei due mandati; l’opposizione non ha mai conquistato il potere ma almeno le è stato concesso di dire la sua.

L’affluenza, molto bassa, si è attestata intorno al 51% degli aventi diritto, come in Guinea, con un crollo di ben 16 punti rispetto a 5 anni fa.

Con la presidenza di John Magufuli si è invece passati direttamente all’autoritarismo del singolo individuo, alla violazione della libertà di espressione dell’opposizione, senza ipocrisie e senza giustificazioni, come avviene invece in Guinea dove Condé cerca di arrabattare scuse.

Carcerazioni politiche per chi critica il Presidente, estremismo religioso, ergastolo per gli omosessuali, controllo totale dei media, guerra ad ogni ipotesi di politica demografica,  lotta alle regioni autonome (specialmente alle istanze di autonomia di Zanzibar e ai partiti locali di opposizione), chiusura di radio e tv nemiche. Il soprannome di “bulldozer”, al limite del culto della personalità. John Magufuli, di professione chimico ma vecchio membro del partito e più volte ministro, ha espresso molto chiaramente il futuro che vuole per la Tanzania.

Dopo la pubblicazione dei risultati ci sono state delle proteste, e si hanno notizie di dozzine di oppositori assassinati dalle forze di polizia e di un blocco totale dei social network.

L’ articolo continua nella prossima pagina con un approfondimento sulle Seychelles e molto altro

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