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Quanto conta che i candidati siano espressione del territorio? Lo studio sulle elezioni politiche italiane 2018

Nell’eterno dibattito tra sistemi elettorali emerge spesso la dicotomia tra sistemi proporzionali e sistema maggioritario. Nei sistemi proporzionali, utilizzati in paesi come l’Olanda e in Italia durante la Prima Repubblica, alla percentuale di voti presa da un partito corrisponde all’incirca la stessa percentuale di seggi assegnati. Al contrario, il sistema maggioritario, in voga nel Regno Unito e negli Stati Uniti, è caratterizzato dalla divisione del territorio nazionale in varie circoscrizioni (o collegi elettorali) e il candidato che prende anche soltanto un voto in più del secondo si aggiudica il seggio, anche quando non abbia ottenuto la maggioranza dei voti (in tal caso, si parla di pluralità).

Se i sistemi proporzionali garantiscono, per l’appunto, una distribuzione di seggi proporzionale al risultato elettorale, il sistema maggioritario potrebbe presentare distorsioni notevoli della volontà popolare data la distribuzione geografica dei voti. Basti pensare, per esempio, ai Liberal Democrats britannici che, nelle ultime elezioni per la House of Commons, hanno ottenuto il 7,4% dei voti, ma si sono ritrovati con soli 12 seggi, cioè l’1,6% del totale.

Tuttavia, i difensori del sistema maggioritario sostengono che esso garantisca una maggiore governabilità, seppur a scapito della corretta rappresentazione dei cittadini, e che ci sia un maggior collegamento con il territorio, in quanto gli elettori sceglierebbero il loro rappresentante sulla base di logiche locali e non di politica nazionale. Ma quanto c’è di vero in questo?

È possibile ideare un esperimento per stimare la “connessione” al territorio dei candidati nei vari collegi del Rosatellum, la legge elettorale che dal 2017 viene impiegata in Italia per le elezioni del Parlamento. Il Rosatellum è un sistema misto che prevede l’assegnazione di due terzi dei seggi proporzionalmente al risultato nazionale, mentre l’ultimo terzo viene assegnato tramite collegi uninominali dove il candidato che ottiene anche soltanto un voto in più del secondo viene eletto.

Grazie agli open data del dipartimento elettorale del Ministero dell’Interno, che contiene i dati anagrafici dei candidati e i risultati delle elezioni del 4 marzo del 2018, è possibile mettere in piedi un modello statistico che provi a rispondere alla seguente domanda: “Dato un candidato tipo, quanto è probabile che sia nato nel collegio che vuole rappresentare?”.

Il modello si rende ovviamente necessario per esprimere con una quantità continua (una probabilità tra 0 e 100%) quella che altrimenti sarebbe una semplice variabile binaria (cioè se il candidato sia o meno del territorio).

Possiamo considerare i candidati basandoci su tre parametri per ottenere questo risultato: la coalizione a cui appartengono, il “margine” di voti verso il secondo candidato (o il primo, nel caso in cui il candidato non sia stato eletto), e la percentuale dei voti presi. In questo modo avremo una formula che ci può dire quanto è probabile che un candidato “tipo” sia nato in uno dei comuni che compongono il collegio elettorale.

Per fare un esempio: prendiamo un candidato del centrodestra, che abbia vinto l’elezione nel collegio con 10 punti percentuali di scarto dal secondo e che abbia ottenuto il 35% circa dei voti totali, il nostro modello ci dice che un candidato del genere ha circa il 45% di probabilità di essere nato nel territorio, ovvero ogni due candidati con queste caratteristiche possiamo aspettarci (più o meno) che uno sia locale e uno no.

Questa formula ci permette di valutare quanto pesa sulla “località” del candidato ciascuno dei parametri che abbiamo scelto: l’appartenenza ad una specifica coalizione, la facilità con cui ha vinto il seggio, la percentuale assoluta di voti che ha ottenuto, in modo da capire cosa guardano i partiti per scegliere dove candidare i propri esponenti.

Osservando il primo grafico notiamo subito che i candidati sono tutti raggruppati vicino ad altri dello stesso partito. La coalizione, infatti, è la componente principale nel determinare se il candidato sia “locale” o meno, con il centrosinistra (data la sua lunga storia di radicamento territoriale) che schiera molti più candidati locali rispetto al centrodestra e ai 5 Stelle (quest’ultimi scontando la maggiore “giovinezza” politica).

Il secondo trend, di maggiore interesse per noi, è legato al margine di elezione del candidato. Più l’elezione è stata ottenuta con facilità, meno è probabile che il candidato sia nato in uno dei comuni del collegio elettorale, in quanto il seggio viene di norma usato per candidare esponenti di spicco del partito, non necessariamente del territorio.

Tuttavia, notiamo come questa tendenza non sia lineare, ma cresca, raggiungendo un massimo, prima di iniziare a scendere. Questo punto va da un margine di -10 per i 5 Stelle (ovvero – 10 punti percentuali dal candidato che ha vinto l’elezione) ad un margine di -3 per il centrodestra, nell’area che indica un’elezione combattuta, o di swing seat.

Osserviamo come il Senato, invece, sembri più rappresentativo del territorio, complice anche il fatto che è eletto su base regionale, dato che la probabilità che il candidato sia nato nel collegio non subisce cedimenti al crescere del margine di vittoria del candidato stesso. Tutto questo è sintomo che i candidati al Senato sono stati scelti con molto più riguardo per il territorio rispetto alla Camera, soprattutto per quanto riguarda i collegi considerati “sicuri”.

Candidati del territorio fanno guadagnare voti?

A questo punto potrebbe essere interessante porsi la seguente domanda: che effetto hanno i candidati sull’elezione? Un candidato locale può migliorare la posizione della sua coalizione, portandola eventualmente a vincere il seggio?

Per cercare una risposta, possiamo considerare lo swing, ossia il distacco dal valore di base che ogni candidato ottiene rispetto al valore nazionale, per vedere se ci sia un qualche effetto visibile tra i risultati ottenuti dai candidati locali rispetto agli altri.

Dividendo i candidati in due gruppi, misuriamo se ci sia una differenza tra la performance elettorali di un gruppo, il che dimostrerebbe l’esistenza di un effetto. Nel grafico sottostante, possiamo osservare in maniera grafica come ogni candidato delle principali coalizioni abbia ottenuto un risultato elettorale migliore (Swing positivo) o peggiore (Swing negativo) del risultato nazionale della sua coalizione.

Attraverso questo grafico, possiamo già vedere come non ci sia un gruppo più in alto o più in basso dell’altro.

Tuttavia, è comunque possibile impiegare un test statistico per misurare il risultato. A prima vista, potrebbe sembrare che un candidato locale abbia una performance mediamente di mezzo punto percentuale migliore, ma questo effetto (in ogni caso trascurabile) non è significativo, dato che il valore p è pari a 0.86, ovvero c’è l’86% di probabilità che sia un effetto casuale.

  • Nato_Collegio[SI], coefficiente 0.1, p-value 0.86

 

Per riassumere quindi non ci sono differenze agli occhi degli elettori tra un candidato locale e uno non locale, a riprova del fatto che in un’epoca di sempre crescente polarizzazione politica la campagna elettorale si combatte più a livello nazionale che sul territorio.

Autore: Gianmarco Di Lella, dilellagianmarco@gmail.com

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