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Storia delle Elezioni Presidenziali: da De Nicola a Mattarella, 76 anni di corse per il Quirinale

Le elezioni dei Presidenti della Repubblica italiana sono sempre state dei punti di svolta della politica nazionale, dalla prima, quella di Enrico De Nicola, fino all’ultima, quella di Sergio Mattarella. Perché, anche se la Costituzione dà al Presidente compiti piuttosto limitati, e sostanzialmente “notarili”, lasciandogli poca iniziativa, talvolta l’abilità, il carisma o talvolta la capacità politica, quando non la spregiudicatezza, hanno di fatto reso l’inquilino del Quirinale un attore politico decisivo, in grado di influenzare fortemente maggioranze di governo e passaggi elettorali. La crescente consapevolezza del ruolo decisivo del Presidente (che oggi appare molto più marcato di 75 anni fa) ha fatto in modo che l’appuntamento con la sua elezione sia sempre stato un momento topico della vita politica italiana, in cui si sono regolarmente sperimentati trabocchetti, tradimenti, alleanze inedite e rotture improvvise. Altre volte, invece, tutto è andato liscio, ma non sempre i Presidenti eletti “unitariamente” sono stati i migliori.

Ecco quindi una breve storia delle elezioni presidenziali.

Enrico De Nicola firma la Costituzione, diventando così primo Presidente della Repubblica Italiana.

Ricordiamo, per completezza, le modalità di elezione: il Presidente della Repubblica viene eletto, secondo Costituzione, da deputati e senatori riuniti in seduta comune, a cui si aggiungono (dal 1971), tre delegati per ogni Regione (uno solo per la Val d’Aosta). Il collegio elettorale quindi si compone oggi, e per l’ultima volta il prossimo febbraio di 945 parlamentari eletti (che si ridurranno a 600 dopo l’entrata in vigore del taglio del parlamentari), 58 delegati regionali più i senatori a vita, che sono in numero variabile. Per i primi tre scrutini è necessaria la maggioranza dei due terzi dell’assemblea, dalla quarta votazione basta la maggioranza assoluta, che è comunque uno scoglio non facile da superare. Il voto è rigorosamente segreto, e anche questo ha determinato nella storia molte “sorprese”

 

1946: De Nicola accontenta tutti

Proclamata la Repubblica dopo il referendum del 2 giugno 1946, ed evitata la guerra civile che a un certo punto era parsa imminente, vista la resistenza di Umberto II ad accettare i risultati del voto, è il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi ad assumere provvisoriamente le funzioni di Capo dello Stato. Ma a tutti è chiaro che è necessario eleggere subito un Presidente legittimato che, in realtà, non sarà un Presidente vero, perché la Costituzione non esiste ancora, ma solo un Capo provvisorio dello Stato.

E’ il periodo in cui Dc, Psi e Pci vanno d’amore e d’accordo, e proprio per questo non intendono dividersi sull’uomo da piazzare in questo ruolo ancora indefinito. Tutti concordano che debba essere una personalità della vecchia Italia liberale prefascista, per non suscitare conflitti incontrollabili, per dare un segno di pacificazione e moderazione, anche agli Alleati che, di fatto, ancora controllano militarmente il nostro Paese. In più, vista la forza dimostrata dai monarchici nelle urne (46%), si pensa che debba essere un esponente monarchico.

A questo punto la Dc punta su Vittorio Emanuele Orlando, Presidente del consiglio ai tempi della battaglia di Vittorio Veneto e poi nella conferenza di pace di Versailles, ostile al fascismo, dopo esserne stato all’inizio un fautore. Le sinistre e i laici propongono invece il grande filosofo Benedetto Croce, oppositore molto più deciso di Mussolini, e “padre nobile” della cultura laica. Alla fine si trova l’accordo su Enrico De Nicola, avvocato napoletano, giurista di valore, che, pur eletto nel “listone” fascista nel 1924, aveva poi rifiutato di giurare da deputato e quindi far parte della Camera. Oppositore anche lui “timido” del fascismo (fu nominato senatore dal Duce, ma non andò mai alle sedute dell’assemblea) era tornato in auge con il governo Badoglio, ed era stato lui a inventare la formula con cui Umberto II aveva potuto guidare la nazione fino al 2 giugno 1946, la “Luogotenenza”.

Uomo retto, ma giudicato innocuo dai partiti, dalla classica retorica avvocatesca e napoletana insieme, viene eletto il 28 giugno 1946 al primo scrutinio con 396 voti su 573 aventi diritto, inverando così il paradosso di un monarchico a capo della Repubblica.

De Nicola diventerà a tutti gli effetti primo Presidente della Repubblica una volta entrata in vigore la Costituzione, a norma della prima disposizione transitoria della Carta Costituzionale da lui stesso firmata come Capo provvisorio dello Stato.

 

1948: Con Einaudi vince il centrismo

L’atmosfera nel maggio 1948 è molto diversa da quella di due anni prima: comunisti e socialisti sono stati espulsi dalla maggioranza di governo, e le elezioni del 18 aprile 1948 hanno dato la maggioranza assoluta alla Dc, che però governa anche con l’appoggio dei partiti “centristi” (Pri, Pli e i socialdemocratici del Psli), Il 1° gennaio è entrata in vigore la Costituzione, ed Enrico De Nicola è diventato Presidente della Repubblica effettivo, ma è chiaro che il suo ruolo va ridiscusso. E una volta vinte le elezioni il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi non perde tempo e gli chiede di dimettersi, per avere un Presidente legittimato a norma di Costituzione.

De Gasperi e De Nicola sono da tempo ai ferri corti: l’avvocato napoletano si è rivelato un Presidente poco malleabile e molto formalista: non solo ha tentato di evitare nel 1947 la cacciata di Psi e Pci dal governo, facendo il tentativo di sostituire de Gasperi con Vittorio Emanuele Orlando o con Francesco Saverio Nitti, il grande liberale meridionalista, ma ha anche cercato fino all’ultimo di non firmare il trattato di pace con gli alleati, mettendo in campo mille cavilli giuridici. Nel giugno 1947 addirittura si dimette dalla carica, ma il giorno dopo la Costituente lo rielegge.
Insomma, De Gasperi vuole un altro candidato, possibilmente non democristiano sulla base della teoria degasperiana del coinvolgimento delle forze moderate, per impedire che la Dc assuma troppo potere. E lo individua nel conte Carlo Sforza, repubblicano, antifascista “vero” della prima ora, oltre che ministro degli Esteri del suo governo. Sforza però ha un problema: è un convinto fautore dell’Alleanza atlantica, dell’ingresso dell’Italia nella Nato, e per questo è indigeribile non solo per comunisti e socialisti, ma anche per la sinistra Dc, all’epoca su posizioni neutraliste.

Sforza quindi è il candidato ufficiale Dc, ma viene impallinato al primo turno; solo 353 voti, contro i 396 di De Nicola, votato dalla sinistra. Anche il Psli, il partito socialdemocratico di Giuseppe Saragat nato dalla scissione del Psi, ha votato contro Sforza, ingolosito dall’idea che la presidenza possa toccare a uno dei suoi esponenti, magari Ivanoe Bonomi. Dopo la seconda votazione, anche questa negativa per Sforza, la Dc è costretta a cambiare cavallo e ripiega su Luigi Einaudi, giornalista, e poi economista, liberale doc, e liberista, teorico del pareggio di bilancio. L’uomo è rispettato da tutti, e Togliatti propone ufficialmente che la sinistra lo voti insieme alla Dc “a nome delle classi popolari”, ma De Gasperi rifiuta: Einaudi sarà il Presidente del centrismo. E l’11 maggio 1948, alla quarta votazione, quando serve solo la maggioranza assoluta, ottiene i voti necessari, mentre Pci e Psi votano per ripicca Vittorio Emanuele Orlando, colui che avrebbe dovuto “sostituire” De Gasperi e formare un altro governo di unità nazionale.

 

1955: Gronchi eletto nonostante la Dc

Einaudi si rivelerà un presidente corretto e scrupoloso, garante della Costituzione, molto attento sulle questioni economiche e severo sulla copertura di ogni legge che prevede spese, come vuole la sua ideologia, ma lontano dai giochi politici e rispettoso del Parlamento. Unico neo, probabilmente, l’incarico a Giuseppe Pella dopo la caduta di De Gasperi, in vista di uno spostamento “a destra” del quadro politico che poi non avverrà.

Nel 1955 siamo nel pieno dell’epoca centrista, una formula che però già profuma d’antico, mentre  qualcuno già progetta il futuro centrosinistra. Uno di questi è Amintore Fanfani, il segretario della Dc, potente e apprezzato per aver dato un taglio “popolare” al suo partito, ma che conta molti nemici interni, sia alla sua sinistra che alla sue destra. Fanfani, coerente con la strategia Dc di sempre, propone come candidato della maggioranza di governo un uomo che non fa parte del partito anche se è stato eletto nelle sue liste: Cesare Merzagora, banchiere e uomo d’affari, laico e lontanissimo dall’associazionismo e dalla cultura cattolica, garante, come si direbbe oggi, dei “poteri forti” confindustriali. Fanfani lo vuole soprattutto per coprirsi “a destra”, nel momento in cui l’asse politico si dirige a sinistra, e anche per evitare che un Presidente Dc faccia da contraltare al suo potere nel partito.

La manovra fallisce: al primo scrutinio del 28 aprile Merzagora prende molti meno voti del candidato delle sinistre, l’azionista ed ex Presidente del Consiglio Ferruccio Parri, 228 a 308. A tradire è stata l’ala più conservatrice della Dc, che vuole fare abbassare le ali a Fanfani, e che ha votato Einaudi (120 voti) mentre la sinistra sindacale Dc ha puntato sul Presidente della Camera Giovanni Gronchi. Alla seconda votazione Gronchi sale da 30 a 127 voti, segno che anche la destra Dc lo ha individuato come l’uomo giusto per far saltare il progetto fanfaniano.

Il guaio per il segretario Dc è che Gronchi ha tutte le caratteristiche per venire votato dalle sinistre: sindacalista, antifascista rigoroso, ostile alla politica degasperiana dell’alleanza stretta con l’Occidente, precursore ante litteram dell’avvicinamento al Psi e perfino al Pci. In realtà un fanfaniano, che viene usato contro Fanfani. E quando il segretario si accorge che al quarto scrutinio, a maggioranza semplice, Gronchi rischia di essere eletto senza il sostegno ufficiale della Dc, si arrende all’inevitabile e finisce per proporlo come candidato del partito. Gronchi passa al quarto scrutinio il 29 aprile 1955 con 658 voti, tutto l’arco costituzionale, tranne qualche Dc di destra e qualche laico che resta fermo su Einaudi (70). L’elezione di Gronchi è un grande scacco per la Dc, Fanfani e il centrismo, e un grande successo per la sinistra, e il neopresidente è ben consapevole del suo debito con i socialcomunisti, al punto da dire nel discorso inaugurale: «Nessun progresso vero si realizza senza il concorso delle lavoratrici e dei lavoratori, ancora tenuti troppo lontani dalla vita pubblica”. I suoi sette anni non saranno coerenti con queste parole.

 

1962: Segni per “vigilare” sul Centrosinistra

Poche presidenze come quelle di Gronchi hanno tradito i presupposti su cui sono nate. Eletto di fatto come uomo dell’intesa con la sinistra, Gronchi si rivelerà invece il principale responsabile del famigerato governo Tambroni, che, sostenuto dal Movimento Sociale italiano, rischia nel 1960 di scatenare una guerra civile in Italia, Sconfessato, lui e Tambroni, dalla Dc stessa, finisce il suo settennato con poca gloria, anche per via di alcuni scandali che lo lambiscono come quello del francobollo “Gronchi rosa”, stampato in poche copie, poi ritirato e diventato preziosissimo.

Nel maggio 1962, Amintore Fanfani guida il primo governo dopo il 1948 appoggiato, anche se solo all’esterno, dal Partito socialista, che si è svincolato dopo i fatti d’Ungheria del 1956 dall’unità d’azione con il Pci. E’ un governo molto riformatore piuttosto radicale: porta avanti, ad esempio, la contrastatissima nazionalizzazione dell’energia elettrica, e l’obbligatorietà scolastica fino alla terza media. Di conseguenza, il segretario della Dc Aldo Moro, per “compensare” e tenere buona la destra del suo partito, i dorotei, propone un candidato conservatore, che possa in qualche modo vigilare sugli “eccessi” di Fanfani e dei socialisti.

La scelta cade su Antonio Segni, docente universitario di Diritto, che a suo tempo aveva promosso la riforma agraria ed era diventato uno degli esponenti Dc più criticati dalla destra, ma poi era rientrato nei ranghi e guidava i notabili democristiani ostili al centrosinistra. Come al solito, la Dc non è compatta, e perde per strada anche gli alleati di governo Psdi e Psi, che non possono votare Segni. Nella prima votazione il candidato Dc conquista 333 voti, contro i 200 di Umberto Terracini, storico dirigente del Pci, e i 120 di Sandro Pertini, portato dai due partiti socialisti. I voti a esponenti Dc come Calogero Volpe, l’ex ministro Attilio Piccioni e persino a Gronchi (si dice sostenuto da Enrico Mattei, il presidente dell’Eni) mostrano chiaramente che dentro il partito cattolico qualcuno non segue le direttive della segreteria.

Nelle votazioni successive tutte le sinistre convergono su Giuseppe Saragat,  mentre Segni sale lievemente, fino a 354, segno che le opposizioni al suo nome si stanno indebolendo. La svolta è il quinto scrutinio: Segni arriva a 396, a pochissimi voti ormai dai 428 necessari. La Dc quindi insiste e riesce ad averla vinta al nono scrutinio, il 6 maggio 1962, quando Segni ottiene 443 voti: il partito si è ricompattato, ma la sinistra Dc ha fatto ben capire di non essere disposta a sottostare ai dorotei. E’ l’elezione più lunga, fino a quel momento, del Presidente della Repubblica (le altre non avevano superato la quarta votazione) e la prima in cui la Dc riesce a imporre il suo candidato di partenza. Ce ne sarà solo un’altra.

 

1964: il regalo di Natale è Saragat

L’estate del 1964 fa segnare tre episodi decisivi per la sorte della Repubblica. A luglio, durante la crisi di governo del primo centrosinistra “organico” (con dentro il Psi), iniziano a circolare voci di una svolta autoritaria, un presunto “golpe” ordito dal generale dei Carabinieri Giovanni De Lorenzo, con l’avallo, anzi il consenso del Presidente Segni. E’ il famoso “Piano Solo”. Ad agosto, riformatosi un nuovo governo di centrosinistra ma dal programma “annacquato”, durante un violento litigio con il ministro degli Esteri Giuseppe Saragat, alla presenza del Presidente del Consiglio Aldo Moro, Antonio Segni viene colto da un ictus, che lo renderà inabile alla carica. E’ sostituito nelle sue funzioni dal Presidente del Senato Cesare Merzagora, e per quasi sei mesi la Dc, guidata da Mariano Rumor, gli impedisce di dimettersi, nel tentativo di trovare un accordo interno sul nuovo Presidente della Repubblica, che ormai, come hanno dimostrato le vicende di Gronchi e Segni, appare un ruolo sempre più strategico e decisivo. A fine agosto poi muore Palmiro Togliatti, sostituito alla segreteria del Pci da Luigi Longo.

Le votazioni iniziano quindi il 16 dicembre in un Parlamento distratto, che desidera solo chiudere presto per festeggiare il Natale. Ma andrà diversamente. Il candidato della Dc è un uomo proposto dai dorotei, Giovanni Leone: insigne giurista napoletano, non legato ad alcuna corrente e proprio per questo spesso scelto per cariche istituzionali (è stato Presidente della Camera e alla guida di un governo “balneare” che ha preceduto il primo governo Moro), ma di certo espressione della parte più moderata del partito. Ma Psi e Psdi, che pure fanno parte della maggioranza di governo, propongono Saragat, mentre il Pci va sulla candidatura bandiera di Umberto Terracini.

Però la Dc è divisa: la sinistra e i fanfaniani non vogliono darla vinta ai dorotei per la seconda volta di fila, e votano Fanfani, che al quarto scrutinio (il primo in cui basta la maggioranza assoluta), ottiene ben 117 voti, mentre Leone solo 290, con la maggioranza a 482. La ribellione è talmente clamorosa che causa un cataclisma in casa Dc, qualcuno chiede perfino di espellere dal partito il reprobo Fanfani (che nel frattempo è arrivato a quota 132). Il timore è che, come nel caso di Gronchi, i comunisti arrivino a votarlo, forzando la mano a tutti gli altri. Si mobilita anche il Papa Paolo VI, che manda un suo uomo di fiducia a chiedere a Fanfani di desistere. Finalmente l’ex segretario e Primo ministro si arrende e si ritira dalla competizione, ma i suoi continuano a non votare Leone, che all’’undicesimo scrutinio (è il 22 dicembre) arriva solo a 382. Non basterebbero a eleggerlo nemmeno la cinquantina di voti che il Msi ha promesso alla Dc, in caso di testa a testa.

Dall’altra parte dello schieramento il Pci si dice disponibile a votare Saragat, se il Psdi glielo chiede, ma la ruggine tra i due partiti è troppo grande perché questo possa avvenire. Così viene lanciata la candidatura di Pietro Nenni, appoggiata da tutta la sinistra, che al 14mo scrutinio (è il 23 dicembre) raggiunge 353 voti, mentre Leone sale a un ancora insufficiente 406, con i voti del Msi.

A questo punto arriva Natale, Leone si ritira, e la Dc, impossibilitata a convergere sull’“alleato” Nenni, in quanto proposto dal Pci, finalmente trova la strada giusta proponendo, in accordo con il Psdi, Saragat, che viene contrapposto a Nenni in un paio di votazioni. Nenni abbozza, tenta di resistere, ci ha creduto davvero di poter diventare Presidente ed esita a lasciare la poltrona al vecchio “amico nemico”, ma alla fine cede, anche perché tutti sanno che è impossibile andare avanti ancora a lungo. E Saragat, il 28 dicembre al 21mo scrutinio, viene eletto con i voti anche del Pci: ottiene 646 suffragi, almeno 50 in meno dei parlamentari che in teoria avrebbero dovuto votare per lui. Si tratta del primo Presidente della Repubblica che arriva “ da sinistra”, sia pure una sinistra filoatlantica e moderatissima come quella del Psdi, e l’ennesima cocente sconfitta della Dc che deve accettare un candidato altrui a causa delle sue divisioni.

 

1971: passa Leone con i voti del MSI

Saragat si rivelerà il Presidente migliore in cui i dorotei potessero sperare: conservatore, anticomunista, ostile ai fermenti del 1968, difensore rigoroso delle forze dell’ordine anche di fronte a episodi come la morte di Pinelli, o la repressione nelle piazze. Nonostante questo, nel 1971 la Dc rivendica nuovamente la carica di Presidente della Repubblica, e il candidato è il “reprobo” di sette anni fa, Amintore Fanfani, ormai “normalizzato” come leader moderato, e fortemente sponsorizzato dal giovane segretario Arnaldo Forlani, che è un suo fedelissimo. Le sinistre, Psi e Pci, puntano invece sull’esponente socialista, della corrente di sinistra, Francesco De Martino. I socialdemocratici votano Saragat, i liberali Giovanni Malagodi.

Ma Fanfani ha troppi nemici nel partito, accumulati in anni e anni di potere, di “svolte” pericolose, di ribellioni e pentimenti, per unire tutto il suo partito. Si ripete così il film già visto: al quarto scrutinio del 10 dicembre (il primo utile, in un Parlamento diviso), Fanfani raccoglie solo 337 voti, mentre De Martino 411. Dal conteggio è ovvio che qualche Dc non solo ha votato “bianca”, ma addirittura ha scelto De Martino. Al quinto scrutinio De Martino è a 399, Fanfani sale a 385, ma è troppo poco, perché la maggioranza (ora ci sono anche i delegati regionali) è fissata a 505. Per inquadrare il momento, ricordiamo anche la leggenda secondo cui, su una scheda nulla, viene scritta la frase: «Nano maledetto/non sarai mai eletto».

Insomma, la candidatura di Fanfani finisce su un binario morto. Però Forlani non si rassegna, chiede ai suoi di astenersi dal settimo al decimo scrutinio, e poi la ripropone, ma non cambia nulla: all’undicesimo scrutinio, De Martino prende 407 voti, Fanfani 393, le bianche sono 60, Psdi e Pli rifiutano di votare Fanfani se questo non dimostra di avere dalla sua parte tutti i suoi, anche perché sperano, come è già capitato, di poter vincere loro la lotteria del Quirinale, se le cose si mettono nel verso giusto.

La Dc quindi deve scegliere un altro candidato, a dispetto di Forlani: l’alternativa è tra Aldo Moro, esponente della sinistra, e il redivivo Giovanni Leone, “portato” dai dorotei. Il voto avviene in un’assemblea dei grandi elettori Dc, e prevale per poco Leone (non si sa di quanto, i bigliettini vengono bruciati). Il nuovo candidato è indigesto comunque a molti, e per contrastarlo Psi e Pci lanciano la candidatura di Pietro Nenni che, dopo ormai otto anni di partecipazione diretta ai governi di centrosinistra, ha un profilo sufficientemente “moderato” da essere votato anche da laici e sinistra Dc. Il gioco però non riesce, il Pli appoggia Leone, Il Pri pure, e in soccorso arrivano anche i 40 voti del Movimento sociale. Al 22mo scrutinio Leone arriva a 503 voti, uno solo in meno del quorum, mentre Nenni si ferma a 408, al 23mo (è il 24 dicembre, vigilia di Natale), la voglia di vacanze prevale su ogni ragionamento politico, e Leone viene eletto con 518 voti. Mai si era faticato tanto a eleggere un Presidente e il record di 23 scrutini non è più stato battuto.
L’elezione di Leone segna un forte punto di crisi tra Dc e Psi, e apre la strada all’effimero ritorno del “centrismo” che, dopo le elezioni del 1972, verrà incarnato dal secondo governo Andreotti, senza il Psi. Ma poi la storia andrà tutta in un altro senso.

 

1978: Pertini come antidoto agli scandali

Giovanni Leone è probabilmente il Presidente che ha inteso in senso più “notarile” il suo ruolo: defilato, rispettoso delle procedure, non ha mai preso posizione, per non condizionare Parlamento e governo, sulle grandi svolte politiche degli anni del suo mandato, il compromesso storico, la non sfiducia, il primo governo con il Pci, il rapimento di Aldo Moro e la decisione se trattare o non trattare con le Brigate Rosse. Ma il “peccato originale” di essere stato eletto con i voti del Msi fa sì che non venga difeso quando (ingiustamente, si scoprirà dopo) viene accusato di essere coinvolto nello scandalo Lockheed, e messo alla berlina in un libro di Camilla Cederna per alcuni suoi comportamenti poco “presidenziali” (ad esempio aver fatto il gesto delle corna in pubblico) e per qualche frequentazione troppo disinvolta dei figli. Così, poco più di un mese dopo la scoperta del cadavere di Aldo Moro, e sei mesi prima della scadenza naturale del mandato, il 15 giugno Leone è costretto a dimettersi, come richiesto dal Pci di Enrico Berlinguer, mentre la Dc lo abbandona al suo destino.

L’estate del 1978 è drammatica, oltre all’imperversare del terrorismo brigatista c’è una forte crisi economica e un governo Andreotti con il Pci in maggioranza che però non riesce a portare avanti i temi “sociali” voluti dalla sinistra. In una sorta di non scritta “alternanza”, la carica di Presidente della Repubblica dovrebbe tornare ai laici, ma su questo non c’è accordo.

Le votazioni iniziano il 29 giugno. Al contrario delle occasioni precedenti, la Dc di Benigno Zaccagnini, paralizzata dalla lotta tra correnti, non ha un candidato vero su cui puntare, e alle prime votazioni propone Guido Gonella, anziano dirigente degli anni ’50, candidatura di bandiera. Sono candidati di bandiera anche Giorgio Amendola per il Pci e Pietro Nenni per il Psi. Al fatidico quarto scrutinio Dc e Psi passano la mano, si astengono, e resta in campo solo Amendola.

A questo punto il giovane segretario del Psi, Bettino Craxi, prende un’iniziativa politica: il Presidente deve venire dal Psi, anche per una sorta di “risarcimento”, in quanto il suo partito rischia di venire schiacciato nella morsa tra Pci e Dc. Il primo nome proposto è quello di Sandro Pertini, che è stato Presidente della Camera per molti anni, nome che però all’inizio è accolto freddamente. Contro di lui l’età avanzata (ha 81 anni) e il carattere “pepato” che tutti conoscono, e che gli ha impedito di assumere ruoli di rilievo dentro il partito (non fa parte di alcuna corrente) o di far mai parte del governo. Pertini poi di fatto pare chiamarsi fuori, chiedendo che la sua non sia una candidatura di “schieramento” (solo della sinistra) ma unitaria.

Si valutano allora delle alternative, sempre nell’area Psi: Antonio Giolitti, uscito dal Pci nel 1956 e noto per sue idee economiche riformiste, e il giurista ed ex partigiano Giuliano Vassalli. Nessuno dei due, per ragioni diverse, convince Dc e Pci insieme. Il Pri dal canto suo propone Ugo La Malfa. Le votazioni si succedono senza esito (Dc e Psi continuano a non votare) fino al 7 luglio, tra la stanchezza e il sarcasmo dell’opinione pubblica. Si impone un rapido accordo e così al Pci, che ha sempre manifestato una preferenza per Pertini, si accoda anche la Dc, in mancanza di alternative plausibili. Al XVI scrutinio, l’8 luglio, Pertini viene eletto con 832 voti, a testimonianza della stima unanime di cui gode il personaggio. Pertini ha prevalso per vari motivi: uno di questi è che per la sua età sembra più facilmente influenzabile di altri. Il secondo è che è una figura specchiata della Resistenza, e questo può servire a ridare prestigio a un’istituzione, la Presidenza della Repubblica, compromessa dagli “scandali” (falsi, ora sappiamo) di Leone.

L’elezione di Pertini è il primo grande successo politico di Craxi, e serve a rinsaldare l’unità nazionale in un momento difficile del Paese, anche se l’anziano presidente non si rivelerà per nulla “malleabile”, come sperava chi l’ha fatto eleggere.

 

1985: Cossiga quasi all’unanimità

Pertini interpreta il suo ruolo in modo molto personale, facendo leva su una sorta di “contatto diretto” con il popolo, attraverso varie esternazioni, e anche, di quando in quando, con pesanti atti d’accusa verso la classe politica, ad esempio denunciando i ritardi dei soccorsi dopo il terremoto del 1980. Questo suo “populismo dall’alto” però rimane confinato al livello della comunicazione, perché dal punto di vista istituzionale il suo mandato è ineccepibile. Nel suo settennato l’Italia riesce di fatto a sconfiggere il terrorismo, mentre il declino elettorale del Pci riporta in auge la formula del centrosinistra, per la prima volta con due Presidenti del Consiglio “laici”, Giovanni Spadolini e Bettino Craxi. E’ un Paese molto più tranquillo, quindi, e in forte crescita economica, quello che nel 1985 si accinge ad eleggere il suo successore.

Il presidente del Consiglio è Bettino Craxi, quindi appare ovvio che il Presidente debba essere un Dc. Il segretario Ciriaco De Mita però, ben ricordando le sofferenze di tante elezioni precedenti, apre delle consultazioni informali con le forze politiche molto prima dell’avvio degli scrutini, fissato per il 24 giugno. Il dato politico è la volontà del Pci, ancora stordito dalla scomparsa di Berlinguer due anni prima, e dall’isolamento in cui lo costringe il governo Craxi, di rientrare in gioco, di essere determinante. Ed è proprio con il Pci e il suo segretario, Alessandro Natta, che De Mita, dopo aver scartato i nomi di Andreotti, Forlani e Fanfani, concorda quello di Francesco Cossiga.

La storia politica di Cossiga è strana: di famiglia laica, cugino di secondo grado di Berlinguer, ha sempre fatto parte della sinistra Dc, ma è anche un uomo da sempre legato ai servizi segreti e agli ambienti militari. Durante il sequestro Moro è ministro dell’Interno, e la sua prova fallimentare lo costringe alle dimissioni. Tempo dopo si saprà che tutti gli uomini di cui era circondato erano affiliati alla loggia P2. Eppure, quella sciagurata vicenda, invece di seppellirlo (politicamente) finisce per diventare la sua fortuna: diventa due volte Presidente del Consiglio dopo la fine dell’ “unità nazionale”, stimatissimo da Pertini che dice di lui: «Cossiga è un uomo onesto e ha sofferto molte amarezze. È diventato bianco e curvo. E poi una volta mi ha regalato un nettapipe d’oro». Inoltre molti lacci lo legano al Pci, probabilmente frutto proprio dell’epoca della lotta al terrorismo, in cui i comunisti erano in prima fila nel combattere l’estremismo “rosso”. A De Mita piace perché lo giudica un “fedelissimo” al partito e alla sua corrente. Il Psi storce il naso, ma non si oppone. Lui fa un po’ il ritroso, mettendo in campo la giovane età (ha solo 57 anni) ma poi si lascia convincere.

L’elezione è un trionfo: per la prima volta dopo De Nicola, il Presidente viene eletto al primo turno con 752 voti: pochissimi i “ribelli” e, a leggere le preferenze, quasi tutti dalla Dc. Il Pci, pur nello sconcerto della base e attaccato duramente dai partiti alla sua sinistra, come Democrazia proletaria, ha votato compatto. Una decisione quasi unanime del Parlamento, quindi, di cui molti qualche anno dopo si pentiranno amaramente.

 

1992: La strage di Capaci “elegge” Scalfaro

Dopo cinque anni di assoluto silenzio, intorno al 1990 Cossiga inizia a “picconare” il sistema politico con le sue “esternazioni” (due parole che sono diventate di moda proprio grazie a lui). Quello che era stato a lungo un silenzioso e zelante notaio delle istituzioni si mette a polemizzare con tutto e con tutti, rivela l’esistenza di un corpo paramilitare anticomunista annidato nelle istituzioni (Gladio), attacca frontalmente il Pci, impegnato in una difficile revisione della sua storia e nel cambio di nome, ma anche la Dc. Il punto è che Cossiga, con qualche anno di anticipo, ha fiutato la crisi del sistema politico della Prima Repubblica e tenta confusamente di dare ad essa risposte reazionarie e populiste. Per di più, nel febbraio 1992, scoppia lo scandalo “mani pulite”, la cui conseguenza alle elezioni di aprile è il calo dei partiti di governo che formavano il pentapartito, e il boom della Lega. E il peggio, per Psi e Dc, deve ancora arrivare.

In questa situazione, Cossiga, fedele fino all’ultimo al ruolo di “sfasciacarrozze” che si è voluto dare, si dimette due mesi prima della scadenza del mandato, e prima che possano iniziare le consultazioni per il nuovo esecutivo. Di conseguenza, è un Paese senza governo, stordito da continue notizie di nuovi avvisi di garanzia, e in forte crisi economica quello che assiste alla prima riunione comune del Parlamento il 13 maggio. La situazione è ben descritta da Paolo Sorrentino nel film “Il Divo”. Il candidato reale della Dc (l’accordo con il Psi è che il Quirinale vada alla Dc, e a Palazzo Chigi torni Craxi) è il segretario, Arnaldo Forlani, ma quello “ombra” è Giulio Andreotti, Presidente del Consiglio dimissionario.

Nei primi scrutini i partiti votano i candidati “di bandiera”, Giorgio De Giuseppe per la Dc, Nilde Iotti per il Pds (nato pochi mesi prima dalle ceneri del Pci), Giuliano Vassalli per il Psi. Alla quinta votazione finalmente viene lanciato il nome di Forlani, con l’accordo di quasi tutta la maggioranza di pentapartito. Dovrebbe essere fatta invece, a sorpresa, Forlani non passa: 469 al quinto scrutinio, 479 al sesto, con la maggioranza a 508. Pesano i franchi tiratori democristiani, probabilmente andreottiani, e anche la mancanza dei voti del Pri, che porta il Presidente del Senato, leader storico del Partito Repubblicano, Giovanni Spadolini.

Forlani desiste, e allora si cerca un nuovo accordo: Craxi propone Giuliano Vassalli, giurista insigne, eroe della resistenza, ma anche avvocato molto garantista, e nel 1992 questo aspetto pesa, in Parlamento e nell’opinione pubblica. Il Pds rifiuta di votarlo, e Vassalli alla votazione numero 14, il 22 maggio, prende solo 351 voti, respinto da andreottiani e Dc di sinistra, a cui il Pds fa balenare la candidatura del giurista cattolico ma progressista Giovanni Conso.

Lo stallo sembra insuperabile, e per evitarlo Marco Pannella propone in tutte le sedi una candidatura inattesa, quella del Presidente della Camera ed ex ministro dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro. Scalfaro è un Dc di destra, è stato il “delfino” di Mario Scelba e si è sempre distinto per le posizioni ostili al centrosinistra e fortemente “codine”, quando non integraliste. Però ha la fiducia dei socialisti (è stato responsabile del Viminale con Craxi) è un galantuomo, è un convinto fautore della centralità del Parlamento e si è opposto fermamente alle picconate di Cossiga. D’altro canto la sua elezione alla Camera è stata considerata un “dispetto” al Pds, in quanto era un ruolo che per convenzione toccava all’opposizione. Come che sia, la candidatura Scalfaro appare a tutti una “pannellata”, mentre molti si aspettano la discesa in campo esplicita di Andreotti.

E invece, a spezzare tutti i giochi, arriva nel pomeriggio del 23 maggio l’attentato di Capaci, in cui muoiono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e la scorta. Le modalità della strage, una bomba che letteralmente distrugge l’autostrada, fanno capire che la mafia ha dichiarato guerra allo Stato. Non è più tempo di tatticismi, l’opinione pubblica non li tollererebbe, e così, dopo un giorno di pausa in segno di lutto, il Parlamento è chiamato a decidere, e la scelta non può cadere certo su Andreotti, i cui uomini son sospetti di legami con Cosa Nostra (Salvo Lima, il suo uomo a Palermo, è stato assassinato a marzo), ma su uno dei Presidenti delle Camere. Prevale Scalfaro, perché comunque la Dc mantiene un suo esponente al Quirinale, il Psi lo considera un uomo di fiducia, e il PDS libera il posto di Presidente della Camera, che infatti andrà a Giorgio Napolitano. Scalfaro viene eletto il 25 maggio al 16mo scrutinio, con 675 voti. Una scelta che, pur fatta in emergenza, si rivelerà imprevedibilmente felice per il Paese.

 

1999: Ciampi a garanzia di tutti

Sette anni dopo, il Paese che nel 1992 viveva un periodo convulso è molto diverso, e decisamente più sereno. Scalfaro si è rivelato un Presidente di saldi principi ma pure abile nelle manovre politiche, ostile al berlusconismo che nel 1994 prende per pochi mesi il potere, e che lui contribuisce a depotenziare, dando spazio a tutte le formule parlamentari che levano a Forza Italia il controllo del governo, dopo le defezione della Lega. Nel 1996 vince il centrosinistra con Prodi, che a fine 1998 viene sostituito, dopo l’uscita dall’esecutivo di Rifondazione comunista, da Massimo D’Alema. Il governo è abbastanza debole, si fonda su fuoriusciti dall’Udc di Casini, ma il Paese attraversa un momento florido, privo di particolari tensioni.

Il che si riversa anche sulla scelta del Presidente della Repubblica: Berlusconi, che con D’Alema ha trattato a lungo sulla Bicamerale (per poi tirarsi indietro all’ultimo momento) vuole rientrare in gioco, non è affatto certo di vincere le elezioni successive, cerca un Presidente che garantisca anche lui e il suo schieramento, in cui è appena rientrata la Lega Nord di Bossi. Propone Giuliano Amato o Emma Bonino, ma il primo è troppo legato a Craxi, all’epoca in latitanza ad Hammamet, la seconda all’epoca ha fama di “berlusconiana”. Nell’altro campo D’Alema, abile politico, evita di imporre un candidato di bandiera, o troppo schierato, e propone invece il suo ministro del Tesoro, Carlo Azeglio Ciampi, che ha l’enorme merito di aver portato, contro tutti i pronostici, l’Italia nell’euro, che partirà di lì a tre anni.

Ciampi è un “tecnico”, anche se nel cuore probabilmente è rimasto un’azionista vicino alla sinistra, come quando era giovane. Ma tutti sono convinti che saprà essere super partes. E così, il 13 maggio, al primo scrutinio, riceve un voto plebiscitario, 707 suffragi. Un’elezione senza storia che viene considerata quasi unanimemente una bella giornata per le istituzioni, il viatico di un confronto più sereno tra maggioranza e opposizione, tra centrodestra e centrosinistra. Non sarà così.

 

2006: Napolitano rinsalda (per poco) il centrosinistra

La Presidenza di Ciampi è molto tranquilla e risponde pienamente alle aspettative. Meno tranquillo il quadro politico dei suoi sette anni, in cui domina il berlusconismo, e il cui il Cavaliere, dal 2001 al 2006, impone il suo governo, contestatissimo dall’opposizione soprattutto per le leggi “ad personam”, che sembrano voler favorire soprattutto gli affari, le aziende e l’inviolabilità dal punto di vista legale di Berlusconi stesso. Guardando all’economia, poi il Paese in questi anni prima rallenta e poi si ferma, e già si profila all’orizzonte una pesante crisi economica. Nel 2006 si svolge una durissima campagna elettorale totalmente all’insegna del bipolarismo, centrosinistra di Romano Prodi contro centrodestra di Berlusconi, che lo schieramento di sinistra vince per un’inezia, poco più di 24 mila voti su 38 milioni. La maggioranza parlamentare alla Camera è solida, grazie al premio garantito dal Porcellum, ma al Senato è appesa ai senatori a vita e a quelli eletti all’estero. 

In questo contesto, c’è chi vorrebbe eleggere un Presidente in accordo con il centrodestra, e chi invece vuole sperimentare la tenuta della maggioranza. C’è un problema in più, l’ “ingorgo” istituzionale causato dal fatto che Ciampi è in scadenza, eppure dovrebbe essere lui a fare le consultazioni.

Si inizia a votare quindi l’8 maggio, alcuni giorni prima della fine del mandato di Ciampi (il 18 maggio), per impedire un imbarazzante cambio della guardia nel pieno delle procedure per il nuovo governo. Berlusconi che è ancora Presidente del Consiglio, e che dopo aver contestato il risultato delle elezioni ha invitato la sinistra a un governo di solidarietà nazionale, ancora una volta propone di eleggere un Presidente “comune”, che potrebbe essere il solito Giuliano Amato, o Franco Marini. Emerge invece con forza la candidatura di Massimo D’Alema, che sembra non raccogliere particolare ostilità nel centrodestra, ma ha forse più nemici a sinistra: per alcuni D’Alema è troppo “politico”, troppo poco neutrale e con una personalità troppo spiccata per essere un buon Presidente. E poi è molto “giovane” per il ruolo, solo 57 anni (come Cossiga). La candidatura viene quasi subito affossata da Fini e Casini nel centrodestra, ma anche dalla Margherita di Rutelli.

I Ds allora (nuova veste del Pds), per bocca del segretario Piero Fassino, chiedono agli alleati di votare comunque un loro uomo, che viene individuato in Giorgio Napolitano, ex Presidente della Camera ed ex ministro dell’Interno con Prodi, da sempre esponente della destra Pci, uomo delle istituzioni quanti altri mai, di certo il meno “comunista” degli ex comunisti. La candidatura di Napolitano va alla prova alla quarta votazione, il 10 maggio, e, un po’ sorpresa, passa subito, con 543 voti, e pochissimi franchi tiratori: i grandi elettori del centrosinistra hanno capito che, dividendosi su questo voto, avrebbero corso il rischio di non far neppure partire il governo (che poi avrà vita tormentatissima). Fa comunque notizia che uno dei dirigenti storici del Pci sia arrivato alla carica più alta della Repubblica, il segno di una legittimazione definitiva di quella parte del Paese per decenni tenuta fuori dal governo in nome della fedeltà occidentale e dello spettro del nemico sovietico. Un modo, pare agli analisti dell’epoca, per chiudere definitivamente con un passato che, peraltro, era passato da un pezzo.

 

2013: Pd nel caos e Napolitano bis

Sette anni dopo, la storia si ripete, ma in forma di farsa. Ancora una volta il Parlamento si ritrova davanti a un “ingorgo istituzionale”, e a dover eleggere il Presidente prima delle consultazioni, dopo un risultato elettorale equilibratissimo. E anche il Presidente sarà lo stesso, Giorgio Napolitano. Ma il risultato politico è completamente opposto.

Napolitano è stato un Presidente accorto, politicamente scaltro: ha gestito bene la convivenza con Berlusconi, ma è stato anche il regista della sua defenestrazione, nel novembre 2011, durante la crisi dello spread, e l’inventore, nonché supremo garante, del governo Monti, che salva l’Italia dal default. Nelle elezioni del febbraio 2013 il centrosinistra guidato da Pierluigi Bersani vince di un soffio, poco più di 200 mila voti, su un centrodestra redivivo, ma stavolta è ben lontano dalla maggioranza al Senato, anche in alleanza con i centristi della Scelta Civica di Monti: “colpa” del boom elettorale del Movimento 5 stelle creato dal comico Beppe Grillo che, facendo leva sulla stanchezza della gente per l’austerità, sui temi dell’onesta, dell’antipolitica e del rinnovamento radicale, conquista uno straordinario e inatteso 25 per cento.

Bersani, Presidente del Consiglio designato dal centrosinistra, inizia un lungo giro di consultazioni, cerca di coinvolgere inutilmente i grillini, e un mese si perde così, mentre l’Italia è ancora sotto osservazione da parte dei mercati finanziari. A questo punto l’elezione del Presidente della Repubblica non si può più rimandare, e molti, anche da destra, superato il rancore per il Napolitano ”politico” che aveva di fatto disarcionato Berlusconi, chiedono al Presidente, ormai 88enne, la disponibilità per un secondo mandato, ricevendo un netto rifiuto.

Viste le forze in campo, Bersani pensa di trattare direttamente con il centrodestra, e il nome che viene fuori è quello di Franco Marini: sindacalista cattolico, uomo integerrimo, saldamente di centrosinistra: in altri tempi avrebbe accontentato tutti, ma la sua designazione causa una ribellione, nel Pd e nell’opinione pubblica. L’accordo con Berlusconi viene subito denunciato dai grillini e dalla sinistra radicale come “inciucio”, mentre i militanti del M5s inscenano sul web delle “Quirinarie”, da cui emergono nomi che strizzano l’occhio alla sinistra: la giornalista Milena Gabanelli, Gino Strada, persino Romano Prodi. Alla fine  il M5s punta su Stefano Rodotà, costituzionalista storicamente di sinistra ma ora in polemica con il Pd. Per di più, dentro il Pd puntano i piedi anche i “renziani”, i parlamentari che fanno capo alla corrente dell’ex sfidante alla segreteria Matteo Renzi, che si dichiarano indisponibili a votare Marini, probabilmente solo per indebolire Bersani.

Il segretario del Pd poi fa un errore capitale: presenta Marini al primo scrutinio del 18 aprile, quando servono i due terzi dei voti. Marini totalizza 521 suffragi, che alla quarta votazione basterebbero (di poco) per l’elezione, ma che in questa fase appaiono drammaticamente pochi. Rodotà, votato da M5s e Sel arriva a 240. A tutti sembra quasi impossibile arrivare al quarto scrutinio appesi a pochi voti di vantaggio, e attaccati da sinistra e renziani per “l’inciucio”, così Bersani cambia cavallo e preferisce puntare su un candidato del centrosinistra unito: Romano Prodi, nominato “front runner” per acclamazione in un’assemblea notturna dei grandi elettori Pd. I voti non basterebbero, ma la speranza è che se Prodi si avvicinasse alla cifra fatidica di 504, qualcuno si aggregherebbe, magari il Movimento 5 stelle o anche Scelta Civica, e il quorum verrebbe raggiunto. Invece Prodi, lanciato nella quarta votazione, ottiene soltanto 395 voti: si calcola che gliene manchino 101 dei suoi. Non si è mai saputo con certezza chi fossero questi 101, ma in questo momento il timore diffuso è che se Prodi venisse eletto in contrapposizione con grillini e centrodestra, il Parlamento potrebbe essere subito sciolto per andare subito a nuove elezioni. Probabilmente è questa ipotesi che affossa la candidatura di Prodi, e la segreteria di Bersani, che si dimette dopo l’esito del voto.

Con il Pd letteralmente al collasso, travolto da accuse reciproche di tradimento, torna in auge la possibilità di un bis di Napolitano, che finalmente accetta, anche se fa sapere che non potrà tenere la carica più di un paio d’anni. Si tratta dell’unica soluzione plausibile capace di domare un Parlamento inquieto e confuso e un Paese angosciato dallo spettro di una crisi senza fine. Alla sesta votazione, il 20 aprile, Napolitano ottiene 738 suffragi, destra e sinistra lo hanno votato compatti mentre i grillini, autori di una manovra di disturbo che ha quasi distrutto il Pd, hanno continuato a puntare su Rodotà, che si ferma a quota 217. Si tratta della prima volta in cui un Presidente viene rieletto, anche se la Costituzione non lo impedisce e l’ipotesi, negli anni passati, ogni tanto era emersa. Napolitano, ancora più “dominus” di quanto già si era rivelato nel settennato precedente, impone subito ai partiti un governo di larga coalizione, con Pd, Scelta civica e Forza Italia, guidato da Enrico Letta, per far uscire l’Italia dalla panne. Per il Pd inizia un periodo di dura lotta interna, che si concluderà a dicembre con l’elezione a segretario di Matteo Renzi.

 

2015: Renzi impone Mattarella

Napolitano, come annunciato, si dimette ai primi di gennaio, dopo un anno e mezzo in cui la barca Italia pare essersi rimessa in linea di galleggiamento. Il nuovo leader del Pd, Matteo Renzi, ha preso la guida del governo e, grazie al suo programma riformatore, e a una personalità giovane e meno paludata di quella dei politici precedenti, gode di ottima popolarità: alle elezioni europee del 2014 ha fatto ottenere al Pd il 41 per cento, e nel gennaio 2015 appare ancora in “luna di miele” con gli italiani, anche se gli avversari interni ed esterni lo aspettano al varco dell’elezione presidenziale.

Renzi ha avviato un ambizioso programma di riforme istituzionali in accordo con Forza Italia e la Lega, e Berlusconi, ancora leader del centrodestra, nonostante abbia perso il seggio in Parlamento dopo una condanna definitiva, si aspetta di poter mettere bocca nella scelta del Presidente come peraltro era successo due anni prima. Il nome che sembra poter accontentare tutti è Giuliano Amato, ex delfino di Bettino Craxi, poi Premier della coalizione di centrosinistra, ma gradito da sempre anche a destra. Certo, si tratta di un nome che entusiasma poco i militanti del Pd e della sinistra proprio per i trascorsi craxiani. E’ molto viva ancora poi l’ostilità verso qualunque “inciucio”, soprattutto con un Berlusconi condannato. Inoltre, a indispettire Renzi è soprattutto il fatto che il nome pare sia stato “concordato” alle sue spalle, scavalcandolo, dal Cavaliere e dai dalemiani, la corrente del Pd che a lui si oppone.

Così Renzi ignora la mano tesa di Berlusconi, e punta su un candidato in grado di unire centro e sinistra, e lo trova in Sergio Mattarella, esponente storico della sinistra Dc, ex vicepresidente del Consiglio, ora un po’ defilato in quanto giudice costituzionale. Mattarella è noto anche per avere avuto il fratello, Piersanti Mattarella, ucciso dalla mafia quando era Presidente della giunta regionale siciliana, perché non si era piegato alle mire di Cosa Nostra. Mattarella convince tutti, potrebbe andare bene anche al centrodestra, ma Berlusconi politicamente non può tollerare che il nome dell’ex dirigente Dc non sia venuto fuori da un accordo esplicito con l’opposizione, e costringe i suoi parlamentari e i suoi alleati a votargli contro.

Renzi non compie il medesimo errore di Bersani due anni prima, e lascia trascorrere le prime tre votazioni senza scoprire le carte, facendo votare ai suoi scheda bianca. I grillini, tanto spavaldi due anni prima, sono in difficoltà e puntano su un nome che questa volta non scalda i cuori di nessuno, quello dell’ex magistrato Ferdinando Imposimato. Alla quarta votazione, il 31 gennaio, Mattarella va alla prova e vince subito: ha votato per lui il Pd, la sinistra, Scelta civica e anche varie forze centriste. Non invece il nuovo centrodestra di Alfano, il gruppo dei fuoriusciti forzisti che ha consentito di allontanare dal governo Berlusconi. Il risultato è comunque lusinghiero: a Mattarella arrivano 665 voti, e ne bastavano 505: segno sia della stima generale di cui gode, sia dell’apprezzamento per la manovra politica di Renzi, che però pagherà questo successo con l’impossibilità di approvare la riforma costituzionale a maggioranza qualificata, esponendosi così a un referendum (che perderà). Il centrodestra ha preferito astenersi o votare scheda bianca, anche per mostrare di non avere di personale nulla contro il nuovo Presidente.

E ora, a febbraio 2022, il rito si ripete per la quattordicesima volta: chi sarà eletto?

 

L’ultimo discorso di insediamento di un Presidente della Repubblica, quello di Sergio Mattarella nel 2015.

 

Anania Casale

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