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IL MAPPAMONDO – In Slovacchia boom del centrodestra, il governo “rosso-bruno” bocciato dagli elettori

di Skorpios

SLOVACCHIA

Si sono tenute ieri, sabato 29 febbraio, le elezioni parlamentari in Slovacchia.
I risultati hanno visto vincitore il partito di centro-destra Olano, e, contemporaneamente, sconfitto il partito socialdemocratico nazionalista al potere SMER.

Tra i dati è rappresentata anche la differenza di percentuali ottenute dai singoli partiti rispetto alle Europee del 2019 (e) e alle politiche del 2016 (p). L’affluenza ha raggiunto un vero e proprio boom (65,8%), in aumento di quasi 6 punti rispetto alle scorse elezioni politiche.

Un’elezione a tratti storica, un vero e proprio terremoto nella storia politica del Paese.  Lo SMER (Direzione – Socialdemocrazia) era ininterrottamente al potere da quattordici anni (con una breve parentesi tra il 2010 e il 2012), con una popolarità iniziale enorme dovuta alla forte personalità del padre-padrone del partito Robert Fico. Una lunga storia politica, raccontata più approfonditamente nel post pre-elettorale del collega Fabbio. Fico, vincitore indiscusso di molteplici tornate elettorali, aveva plasmato a sua immagine e somiglianza il partito, che da tradizionalmente socialdemocratico si era accostato a posizioni nazionaliste, fino ad allearsi, nel 2016, con l’estrema destra del Partito Nazionale Slovacco (SNS) per formare il governo, e ad assumere politiche anti-immigrazione, ad andare d’accordo con Polonia ed Ungheria, a mettere i bastoni tra le ruote dell’integrazione europea. Queste posizioni avevano portato i Socialisti e Democratici Europei a sospendere per un periodo lo SMER dai propri banchi.
Successivamente, il grande favore di Fico tra gli elettori aveva subito le prime crepe con la sconfitta alle elezioni presidenziali del 2014 del Primo Ministro, candidato contro l’indipendente di centro-destra Andrej Kiska; lo SMER, era però tornato a vincere le elezioni nel 2016, quando appunto aveva scelto di governare con i filo-ungheresi di Most Hid e l’estrema destra dell’SNS. L’uccisione del giornalista Jan Kuciak con la sua fidanzata, reporter che investigava sulle frodi fiscali di elementi dell’imprenditoria slovacca con contatti importanti tra i membri del Governo, aveva portato a proteste di massa e alle conseguenti dimissioni di Robert Fico, sostituito dallo slovacco di origine italiana Peter Pellegrini. L’inizio della fine per lo SMER, abbandonato dai proprii elettori progressisti, i quali, alle Presidenziali e alle europee del 2019, hanno preferito partiti anti-sovranisti, come la Slovacchia Progressista  (PS) dell’eletta Presidente Zuzana Caputova.

Primo partito per circoscrizione elettorale. Alle elezioni del 2016, SMER aveva primeggiato in tutte le circoscrizioni, tranne a sud-ovest, dove ancora oggi resta primo SMK-MKP (partito di destra a tutela della minoranza ungherese), e a Bratislava, doveva aveva vinto SaS. Oggi Bratislava si comporta al contrario: vince Olano ma nel centro (puntino bordeaux all’estremità occidentale) arriva primo lo Smer. Lo Smer resta forte nei territori rurali a confine con l’Ucraina, vista la simpatia per il partito delle minoranze ucraine-russe, ma anche in quelli vicino alla Repubblica Ceca, che sono territori in cui i socialdemocratici sono sempre stati più forti.

Un duro colpo al nazionalismo slovacco, di cui hanno risentito, inaspettatamente ed oggi, anche  alcuni partiti di estrema destra: l’SNS è incredibilmente scomparso dallo scenario politico nazionale, abbandonato dagli elettori; i neofascisti di Kotleba (LSNS – Partito del Popolo), molto sopravvalutati nei sondaggi, hanno subito un brusco calo di quattro punti dalle Europee. Molto bene invece l’estrema destra religiosa e omofoba di Sme-Rodina (Noi siamo la Famiglia). Calano anche i centristi di KDH e Libertà e Solidarietà (SaS). Le elezioni rappresentano però una batosta anche per i progressisti liberaldemocratici di PS, la cui percentuale si riduce di 2/3 rispetto alle Europee e che non ottengono nemmeno un seggio, in quanto in coalizione con i liberali di Together (la soglia di ingresso in Parlamento è per i singoli partiti del 5% e per le coalizioni del 7%; non fondere i due partiti sul piano formale si è rivelato un grande errore di cui i progressisti hanno appreso troppo tardi le amare conseguenze). Spariscono anche i filo-ungheresi di Most Hid, che erano al governo. Dove vanno tutti questi voti?
Vanno a Olano, il partito popolare e conservatore (in Europa, nel PPE), che stravince queste elezioni. Il suo leader Igor Matovic, ex membro SaS e fondatore del partito, piace molto a destra, viste le sue visioni antiquate e conservatrici (è contro le unioni civili e fortemente antiabortista), ma, al contempo, si ritiene europeista e si fa promotore di una politica anti-corruzione, problema di cui lo SMER è visto come principale responsabile nel Paese.  Matovic è orientato a formare un governo di destra; con i suoi 53 seggi, per arrivare ai 76 necessari per formare una maggioranza, si potrebbe unire agli estremisti religiosi di Sme Rodina (17) e al nuovo partito liberalconservatore di Andrej Kiska, Per il Popolo, che ha ottenuto 12 seggi, ma anche a SaS, che ha vinto 13 seggi. Il pallottoliere arriverebbe così, nel totale, a 95 seggi, una maggioranza ampissima che permetterebbero al centro-destra di governare tranquillamente per i prossimi quattro anni.
La possibile presenza dei fondamentalisti di Sme Rodina nel Governo, di cui Matovic potrebbe fare a meno ma che vuole apparentemente inglobare per consolidare il proprio potere, però, fa sì che, se dal punto di vista della politica nazionale queste elezioni possono essere sicuramente considerate un grande cambiamento, dal punto di vista dei rapporti con l’Europa, della gestione dell’immigrazione, e dei bilanciamenti con Visegrad,  e in generale delle posizioni nella compagine europea, le cose non dovrebbero cambiare (per lo meno, in meglio dal punto di vista dell’integrazione UE).

 

TOGO

Si sono tenute in data 22 febbraio le elezioni presidenziali in Togo.
I principali contendenti erano: Agbéyomé Kodjo, nazionalista africano di destra, Primo Ministro nei primi anni 2000; Jean-Pierre Fabre, lo storico oppositore dei Gnassingbé, socialdemocratico, alla sua terza sconfitta consecutiva; Faure Gnassingbé, Presidente semi-autoritario a capo di un regime ereditario, figlio dell’ex dittatore Gnassingbé Eyadéma.
La storia contemporanea del Togo e delle ultime elezioni è molto semplice e rappresenta un grande classico dei regimi familiari: dopo la morte improvvisa, per infarto del padre, celebre tra le altre cose per il suo sollazzo nel dare in pasto gli oppositori ai coccodrilli, nel 2005 Faure è salito al potere come suo erede, tramite una manovra golpista sostenuta dall’esercito. A seguito delle conseguenti proteste di piazza, egli ha promesso di essere un Presidente molto più democratico e moderato del padre. Sono seguite elezioni nel 2005 e nel 2010, nelle quali ha vinto (senza stravincere), considerate tutto sommato credibili dagli osservatori internazionali.
Dal 2015 in poi Gnassingbé, ricandidandosi senza limite di mandati, si è dimenticato – come era prevedibile – le proprie promesse e, pur non facendo sbranare nessuno dagli alligatori, ha occupato l’intero spazio di potere per mezzo di molteplici irregolarità elettorali, un assedio pressoché totale dei media, una notevole corruzione e tutto quello che ben si aggrada a una dittatura che però vuole ancora fingere di non esserlo. A queste elezioni, i risultati sono stati impietosi: Gnassingbé, con il suo partito di estrema destra Unione per la Repubblica, ha ottenuto il 72,4% e 1,9 mln di voti; Agbéyomé Kodjo, con il Movimento Patriottico per la Democrazia e lo Sviluppo, ha ottenuto il 18,4% e 492mila voti; Jean-Pierre Fabre, con l’Alleanza Nazionale per il Cambiamento, ha ottenuto solo il 4,4% e 117mila voti.
Un’altra dittatura africana che si consolida, viaggiando in direzione contraria rispetto ai molteplici regimi ed ex regimi, decaduti o sempre più in crisi in quest’ultimo decennio, del Continente nero.

 Altre notizie:
– In MALAYSIA si è dimesso il Primo Ministro più anziano del mondo, il novantaquattrenne (ma più che arzillo) Mahathir Mohamad. Mahathir (il cognome, in Malaysia, è il primo dei due elementi del nome), salito al potere con le elezioni del 2018, che avevano visto la fine del regime di Najib Razak – ma Primo Ministro già per una lunga stagione di democratura durata dal 1981 al 2003 – aveva promesso al suo alleato di coalizione Anwar Ibrahim che si sarebbe dimesso a breve per lasciare spazio a lui come suo successore. E’ da più di un anno che, però, questo passo viene rimandato e, fino a ieri, non sembrava ancora del tutto concretizzato: Mahathir si era dimesso perché molti parlamentari si erano stufati della sua ammuina e sperava di essere nominato dal Re Abdullah nuovamente Primo Ministro, questa volta non a tempo. Ciò non è avvenuto: Anwar e i suoi parlamentari si sono ribellati a questa opzione, e sono usciti dalla coalizione di sinistra che nel 2018 aveva vinto le elezioni. Ma i rimescolamenti della politica hanno voluto che tra i due litiganti alla fine godesse il terzo: è diventato Primo Ministro Muhyddin Yassin, Ministro dell’Interno di Mahathir ma sostenuto dall’opposizione e anche dal partito dell’ex Primo Ministro sconfitto Najib Razak. Scandalo! Mahathir e Anwar hanno subito dichiarato al Re di essere disposti a riappacificarsi e gridato al Paese che gli sconfitti alle elezioni non dovrebbero governare. Troppo tardi: Muhyddin è riuscito a formare un governo, e ora i due (auto) esclusi promettono battaglia.
– In IRAN si sono svolte le elezioni parlamentari e quelle dell’Assemblea degli Esperti. Elezioni meno combattute non ce ne sono mai state: i Riformisti hanno boicottato le elezioni, oppure è stato loro impedito di partecipare. I Principlisti (alias conservatori) hanno quindi ottenuto 191 seggi, a fronte dei 16 dei Riformisti e dei 34 degli Indipendenti.

Per questa settimana è tutto.

Alla prossima elezione!

Skorpios

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