Le elezioni parlamentari nella Repubblica d’Armenia sono state vinte dalla formazione denominata Contratto Civile, alleanza politica con a capo il Primo Ministro uscente Nikol Pashinyan.
I risultati si sono rivelati abbastanza sconcertanti. Pashinyan, pur ottenendo un calo rispetto alle elezioni del 2018 e dunque consensi minori, non vince, ma stravince, contro i nazionalisti dell’Alleanza Armenia, che avevano cavalcato le proteste contro l’armistizio siglato con l’Azerbaijan per la conclusione nella guerra del Nagorno-Karabakh, proteste che a propria volta avevano portato alle dimissioni del Primo Ministro.
Nella tabella sono rappresentati solo i partiti che hanno conseguito dei seggi in Parlamento. Tra gli esclusi eminenti, Armenia Prosperosa, i liberalconservatori che rappresentavano l’opposizione nel 2018. Le due alleanze nazionaliste che hanno cavalcato le proteste sono Alleanza Armenia, il cui aumento dei consensi è certificato con riferimento a quello che fu l’unico partito, oggi suo componente, ad essere presente alle ultime elezioni (la Federazione Rivoluzionaria Armena), e Io Ho l’Onore, il cui incremento è certificato rispetto a quello che nel 2018 era il Partito Repubblicano, che oggi compone questa nuova alleanza, il movimento dell’ex Presidente autoritario Serz Sargsyan. L’affluenza si è attestata al 49,4%, un leggero aumento (circa 1,2%) rispetto alle ultime elezioni.
Si ricorda che Pashinyan si era distinto come la figura principale della cosiddetta “Rivoluzione di Velluto”, che aveva portato gli Armeni a rovesciare il regime guidato da Serz Sargsyan, l’ex leader autoritario che aveva deciso di trasformare l’Armenia da repubblica presidenziale a parlamentare in modo da essere eletto primo ministro senza rischio di essere bloccato dal limite dei due mandati. Una riforma senza dubbio originale, dato che normalmente le svolte autoritarie avvengono grazie alle forzature del presidenzialismo.
La rivoluzione democratica di Pashinyan avveniva comunque in un contesto di amicizia e dipendenza dalla Russia, altrimenti difficilmente avrebbe avuto successo. Uno dei pochi esperimenti democratici russi ad essere mai realizzati (si ricordi, recentemente, la disastrosa fine, dopo alcuni anni, dell’esperimento del Kirghizistan), che ha trovato la sua crisi dopo la disfatta nella guerra ad Artsakh dell’autunno scorso. Il conflitto ha visto l’Azerbaijan dello spregiudicato dittatore Ilham Aliyev,il 27 settembre 2020, muovere le proprie truppe nei territori dello Stato de facto della Repubblica di Artsakh (ex Nagorno-Karakabh),a cavallo tra Armenia e Azerbaijan. Un’invasione (a detta degli Azeri, naturalmente, provocata dagli Armeni) di zone formalmente in territorio azero ma sostanzialmente di lingua e cultura armena, che hanno avuto il ruolo di fungere da cuscinetto tra i due Paesi non certo amici.
Il tutto con l’appoggio della Turchia di Erdogan, dimostratasi abilmente capace di essere impegnata, con successo, su più fronti nell’ottica della propria strategia che si potrebbe finanche definire imperialista (si ricordi il recente successo turco in Libia, e l’impegno sempre forte nella Siria del Nord e in Somalia). Due mesi di guerra con un bilancio tragico per gli sconfitti: più di quasi tremila militari armeni uccisi, una buona porzione del Nagorno-Karakabh riconquistata, ed infine un’intesa che fa rima con resa per Erevan, con l’Artsakh ridotto ai dintorni della capitale Stepanakert e poco altro. Una pace fortemente voluta dalla Russia di Putin, che ha dovuto assumere il ruolo di potenza pacificatrice in quanto alleata di entrambi i Paesi e presa ancora una volta alla sprovvista dall’attivismo turco.
In patria, Pashinyan ha sottolineato di aver voluto evitare inutili spargimenti di sangue, vista anche l’enorme diversità delle forze sul campo, ma molti Armeni tenevano in fondo più alla “terra perduta” che ad evitare ulteriori ed inutili rischi (del resto si parla di 90mila armeni sfollati). Le proteste nazionaliste si sono susseguite così a lungo e con così tanta forza, che lo Stato Maggiore dell’esercito ha domandato a Pashinyan, con una piega da molti definita pericolosa, di dimettersi. I nazionalisti dell’Alleanza Armenia, guidati dal vecchio Presidente Robert Kocharyan, pensavano dunque di avere la strada spianata alle elezioni.
Mai previsione fu più errata: Pashinyan, anche a dispetto dei sondaggi, ha ottenuto più della metà dei consensi complessivi, sebbene subendo un certo calo rispetto alle ultime plebiscitarie elezioni. A testimonianza di come molti armeni siano, nonostante tutto, ancora spaventati dai ricordi del vecchio regime, così come dall’instabilità delle manifestazioni di piazza e delle intromissioni militari. Naturalmente, l’Alleanza denuncia brogli alla Corte Costituzionale, e sta seriamente pensando di non insediarsi in Parlamento. La Rivoluzione di Velluto per ora è salva, ma la situazione non è tranquilla.
Altre notizie:
ALGERIA – Leggera soddisfazione e un certo grado di tensione in Algeria, per il Governo del Presidente Abdelmadjid Tebboune, dopo lo spoglio dei risultati delle elezioni parlamentari. Lo storico partito (Fronte di Liberazione Nazionale) che fu di Abdelaziz Bouteflika, il leader autoritario deposto con i moti di piazza della primavera (araba) del 2019, ma ancora saldamente al potere in virtù di un cambiamento avvenuto solo a metà, è arrivato primo ma ha perso una buona dose di consensi (63 seggi sui 161 precedenti). Sconfitti anche i liberali, mentre invece i veri vincitori politici della tornata sono i partiti islamici (come il Movimento della Società per la Pace, ispirato dai Fratelli Musulmani) e nazionalconservatori (come il nuovo partito del Fronte Futuro). Un percorso simile a quello seguito, recentemente, dalla Tunisia, che però può – per ora ed ancora – giudicarsi un esempio di buona riuscita della primavera araba locale.
MESSICO – Conferma ma (non eccessivo) calo alle elezioni parlamentari messicane, che potrebbero definirsi di mid-term, del consenso popolare per il Presidente socialista Lopez Obrador, detto AMLO. La sinistra populista torna a primeggiare con il 34% dei consensi, contro il 18% del centro-destra, ma perde circa 3 punti dalle ultime elezioni. In ogni caso, il socialismo messicano può tirare un sospiro di sollievo.
SVEZIA – Nonostante i tentativi degli alleati (Centro e Sinistra) di rimediare con il ritiro della legge sulla liberalizzazione degli affitti e una nuova fiducia, Stefan Lofven, indignato per essere stato il primo premier sfiduciato in Parlamento nella storia della Svezia, ha deciso di non rimanere più al potere. Ad oggi, più che un nuovo governo, sembrano più probabili nuove elezioni anticipate in autunno.
Per questa settimana è tutto.
Alla prossima elezione!
Skorpios
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