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In Myanmar si sono tenute le elezioni parlamentari, da cui è uscito vincitore il partito Lega Nazionale per la Democrazia del Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi.
Il risultato è stato schiacciante, e ha visto il partito al governo incrementare ancor più i propri consensi rispetto alle ultime elezioni del 2015, e, al contempo, l’opposizione del partito dei militari perdere ulteriori voti.
Questo, tuttavia, non significa che anche il nuovo Governo di Suu Kyi potrà evitare di essere fondato su un compromesso al ribasso.
Si ricorda che nella camera alta (Camera delle Nazionalità) e in quella bassa (Camera dei Rappresentanti), i militari hanno una quota del 25% dei seggi riservata e prestabilita per legge. E’ lo scotto da pagare per il Myanmar per tornare ad ottenere la democrazia dopo decenni di dominio della giunta.
La riforma costituzionale che ha seguito la fine del dominio militare e la venuta al potere dell’ex ostracizzata San Suu Kyi ha anche previsto l’instaurazione di un sistema parlamentare misto, con un Presidente a capo dell’esecutivo eletto dal Parlamento ma sottratto da ogni possibile sfiducia.
Tuttavia, in Myanmar il potere effettivo è detenuto dal Consigliere di Stato, una figura simile al Primo Ministro, che è appunto impersonificato da Aung San Suu Kyi dall’aprile 2016, mentre il Presidente, attualmente, è Win Myint, ex Presidente della Camera fedele a Suu Kyi che non può diventare Presidente in quanto ha due figli di nazionalità straniera (britannica).
Suu Kyi si è distinta, una volta giunta al governo, per la ricerca estrema di un’unità del Paese, a costo tuttavia delle promesse di democrazia e dei diritti umani che aveva sembrato impersonificare. Accettando le quote di potere riservate ai militari; ricercando un’unità con i vari gruppi etnici che costellano il variegatissimo – demograficamente – Paese, tranne con quelli più invisi ai militari stessi e alla maggioranza nazionalista buddhista; facendo poco per evitare la repressione della libertà di stampa; ma soprattutto, avvallando con il suo silenzio il genocidio della minoranza musulmana Rohyingia nello Stato del Rakhine, a Nord-Est del Paese, costretta a soccombere o nel migliore dei casi a lasciare le proprie case per tentare la fuga in Bangladesh.
Il NLD ha prevalso in tutti gli Stati birmani, tranne uno: il Rakhine, non a caso, dove pure nelle circoscrizioni con una maggioranza demografica rohyngia non è stato permesso di votare. I risultati sono chiaramente favorevoli al NLD; quasi plebiscitari, se non fosse per la quota parlamentare riservata ai militari, ed evitano ogni rischio di maggioranza formata da militari di nomina + USDP. Tuttavia, Su Kyi ha annunciato un governo il più unitario possibile, con tutte le varie rappresentanze etniche dentro (tranne quelle più ostili), e un dialogo con i militari e l’USDP. Non si vedono quindi grandi cambiamenti all’orizzonte.
In Belize si sono tenute le elezioni parlamentari, da cui è uscito vincitore il Partito Popolare Unito di Johnny Briceno.
Le elezioni hanno avuto una portata storica perché hanno visto la fine del dominio dei liberalconservatori del Partito Democratico Unito, al governo da dodici lunghi anni con il Primo Ministro Dean Barrow.
La storia politica belisiana è stata caratterizzata da un alternarsi di questi due partiti, più o meno regolare dall’inizio degli anni ’80, quando il Paese centroamericano ha ottenuto l’indipendenza dal Regno Unito. Ma negli ultimi dodici anni il potere si era piuttosto consolidato nelle mani del centro-destra di Barrow, primo afro-centroamericano al governo. In questa tornata elettorale, Dean Barrow si è ritirato e non si è ricandidato in ragione di seri problemi di salute sopravvenuti.
Come si è visto la scorsa settimana con le elezioni a S. Vincent&Grenadines, anche in Belize ha avuto un peso importante il crollo economico improvviso subito in virtù del blocco pressoché totale del turismo, causato dalla pandemia mondiale. Il mandato di Barrow è stato caratterizzato anche dall’intensificarsi della disputa territoriale con il Guatemala relativa ai territori del nord del piccolo Paese con capitale Belmopan, a causa delle rivendicazioni dei recenti governi di destra nazionalista guatemaltechi. Barrow ha accettato di indire un referendum per decidere se rinviare la questione all’autorità della Corte Internazionale di Giustizia, mentre l’opposizione
del PUP ha contestato fortemente questa decisione criticandola in quanto potenzialmente sintomatica di un’apertura sfavorevole all’unità territoriale del Belize. Alla fine il referendum ha dato ragione al Governo, ma la popolarità di Barrow è comunque rimasta intaccata.
Oggi il procedimento è pendente a l’Aja, con termini per memorie fino al 2022. Il Guatemala presenterà le sue, tuttavia, già a dicembre di quest’anno.
Johnny Briceno, politico di lungo corso ed imprenditore dei media con un profilo anti-corruzione, promette cambiamento. Sarà un inverno piuttosto movimentato per la politica guatemalteca.
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